Esisto come meglio posso/ Il passato, ora, è parte del mio futuro/ Il presente è fuori portata/ Cuore e Anima – uno brucerà”. Sono forse i versi più celebri tra quelli composti da Ian Curtis, leader dei Joy Division, impiccatosi il 18 maggio del 1980, a soli 24 anni. In apparenza, l’ennesima parabola del tormentato artista romantico, destinato all’autodistruzione; un mito nel quale Ian, come molti adolescenti, era cresciuto: l’ossessione per personaggi come James Dean o Jim Morrison e per la musica di Lou Reed, Bowie e Iggy Pop ne anticipa la sensibilità artistica volta al romanticismo gotico. Non spiega, tuttavia, i motivi reali di quel gesto avvolto in un alone che appartiene più al personaggio che all’uomo. La biografia scritta dalla vedova Deborah, “Touching From A Distance”, diario secco tra affetto e rancore, descrive due relazioni impossibili: la sua con il marito e quella di Ian con se stesso. Ne esce un ritratto anche a più voci di giovani proletari inglesi immersi nel grigiore sociale che precede la crisi degli anni ’80: siamo nei dintorni di Manchester, la città che passerà da simbolo di benessere a sinonimo di disoccupazione e depressione. Ed anche se Ian, come Deborah, mantiene il suo posto di lavoro fino a quando l’attività musicale non lo obbligherà a dimettersi, il problema economico rimarrà un’afflizione costante per la giovane coppia. Carismatico e dotato di talento, Ian coltiva sin da bambino il sogno di diventare famoso; il carattere introverso e la particolare sensibilità colpiscono chiunque gli stia accanto: molto prima di diventare una leggenda dello spettacolo, Ian Curtis è già una leggenda per la sua cerchia di affetti.
Quando forma i Joy Division (in origine Warsaw) insieme a Bernard Albrecht (poi Sumner), Stephen Morris e Peter Hook, trova nel talento musicale degli altri non solo perfetta rispondenza al progetto che ha in mente, ma il modo per dare voce alle sue laceranti pulsioni interiori: l’uscita di “Unknown Pleasures” (luglio 1979), Lp d’esordio, riscuote immediato successo; il suono e l’attitudine della band si discostano dalle influenze del momento, pur essendovi immersi; si parla di “versione melodica dei P.I.L.”, ma la melodia dei Joy Division segue contorte regole proprie: è un canto elettrico che imprigiona un cuore caldo in una griglia raggelante.
E’ la versione scenica di un dramma privato. Fertile compositore di rapide poesie esistenzialiste, Ian è incapace di dare direzione e senso alla vita privata: infedele come marito, a dir poco trascurato come padre. Il colpo di grazia è l’insorgere dell’epilessia: oppresso dall’angoscia, dipendente dalle medicine, obbligato a trasformare le crisi in momenti di spettacolo – scelta doppiamente crudele. Alcuni concerti vengono annullati, ad altri è obbligato; sul palco, i Joy Division lasciano ogni volta il segno in chi li osserva. Avvolti in un’oscurità tagliata da poche luci bianche, i musicisti quasi immobili mentre Ian intona: la sua voce è un baritonale lamento spirituale; le sue movenze, una coreografia rifratta in uno specchio rotto.
Forse la decisione finale è già presa quando, nella primavera dell’80, il gruppo incide i brani per “Closer”, il secondo Lp: Ian riesce a fare in modo che la moglie non legga i testi che sta scrivendo. Un tour in America è alle porte, ma due giorni prima della partenza, Ian, già separato da Deborah e dalla figlia, si impicca nella cucina della vecchia casa di Macclesfield. Sul piatto del giradischi l’ultimo disco ascoltato: “The Idiot” di Iggy Pop. Come epitaffio per la lapide, Deborah sceglie “Love Will Tear Us Apart”, titolo del singolo che anticipa “Closer”. L’album esce tre mesi dopo: è un capolavoro assoluto; Albrecht, Hook e Morris proseguiranno, saggiamente, con un altro nome – New Order – e un altro stile.
“Sì, abbiamo sprecato il nostro tempo/ Non che ne avessimo molto/ Ma mi ricordo – di quando eravamo giovani” (“Insight”).