La crisi esplosa nella federazione dell’Ulivo suscita una domanda semplice: cosa sarebbe cambiato se invece di dare battaglia per una lista unitaria tra partiti divisi che puntualmente tornano a dividersi appena eletti, al parlamento europeo come nei consigli regionali, si fosse dato battaglia apertamente per la costruzione del nuovo partito riformista italiano? Se invece di dare battaglia per un patto federativo tra partiti distinti, che puntualmente tornano a distinguersi appena usciti dalle riunioni di vertice, per una cosa che non è un nuovo partito né una semplice alleanza dei partiti esistenti, se invece di tutto questo si fosse lavorato sin dall’inizio per l’obiettivo più alto, puntando direttamente al massimo della posta? Dubitiamo che in tal caso gli avversari del progetto sarebbero stati anche uno solo in più; siamo certi invece che gli argomenti a disposizione dei suoi sostenitori sarebbero stati più numerosi e più convincenti. Ci viene dunque il sospetto che la strategia di Romano Prodi, Massimo D’Alema e Piero Fassino – o per meglio dire, la coincidenza delle loro diverse strategie sull’obiettivo di medio periodo chiamato federazione – abbia sortito il bel risultato di minimizzare i vantaggi e massimizzare i rischi.
Invece di rinviare al termine del processo lo scioglimento dei veri nodi politici, come l’appartenenza del nuovo soggetto al campo del socialismo europeo o invece dei popolari o dei liberali, non sarebbe stato meglio partire da lì? Si è invece finito per dare l’impressione che l’antica contesa tra fautori del partito democratico (o ulivista) e fautori del partito socialdemocratico sia stata semplicemente spostata su un altro terreno, nella lotta per l’egemonia all’interno della federazione e della lista unitaria. La posizione dei popolari guidati da Franco Marini all’interno della Margherita ha così acquisito punti di forza, a cominciare dalla richiesta di maggiore democrazia all’interno della federazione e della coalizione, passando per la rivendicazione della propria identità e finendo con la denuncia della debolezza di un’operazione verticistica, frutto di un’estenuante contrattazione tra segreterie di partito e gruppi dirigenti ma priva di alcuna coerente base strategica e politico-culturale. Tre obiezioni cui sarebbe stato assai più facile replicare dalla posizione di chi sosteneva la nascita di un grande partito che fondesse i tre principali filoni del riformismo italiano, un partito che avrebbe avuto di conseguenza le sue regole democratiche interne e il suo giusto peso nelle controversie dentro la coalizione – dalle nomine pubbliche alla distribuzione dei collegi – fugando immediatamente anche solo il sospetto di un’impostazione personalistica e leaderistica dell’operazione, che si basasse sull’antico principio del divide et impera.
E’ ragionevole sostenere che per sciogliere quei nodi occorresse del tempo, ma a condizione che quel tempo venisse messo a frutto. La rivendicazione delle identità di partito avrebbe perso molta della sua forza se dall’altra parte in questi anni si fosse pensato a costruire le basi di una nuova identità e di una nuova cultura politica. La giornata dell’orgoglio democristiano di venerdì sarebbe stata forse più improbabile se avesse dovuto confrontarsi con un’alternativa concreta, definita almeno nelle sue linee essenziali, capace di parlare tanto agli eredi delle vecchie tradizioni quanto ai fautori dell’innovazione. Può darsi che il tempo impiegato nella faticosa costruzione della federazione e il fatto compiuto di una lista unitaria alle europee e alle regionali abbiano comunque sedimentato qualcosa nell’opinione pubblica e nell’opinione dei gruppi dirigenti, qualcosa che non era affatto scontato e che potrebbe rivelarsi meno effimero di quanto ora appaia. Può darsi anche, però, che quel tempo sia stato invece perduto in battaglie di retroguardia e in schermaglie tattiche senza prospettiva, dimostrando come la vera malattia che da anni affligge il centrosinistra sia l’immobilismo dei suoi gruppi dirigenti. Certo è che il tempo rimasto per scoprirlo è poco.