Dopo avere giudicato l’Italia il vero malato d’Europa, passando dai mali dei singoli paesi alla malattia dell’organismo nel suo complesso, l’Economist ne ha individuato la cura nella vittoria del No al referendum francese per la ratifica della Costituzione europea. A prima vista, sembrerebbe l’antico paradosso tipico di ogni fanatismo ideologico: per preparare il mondo all’avvento del comunismo, era necessario e persino auspicabile che le condizioni di sfruttamento e oppressione delle classi subalterne peggiorassero quanto più possibile e che la guerra mondiale divampasse tra le grandi potenze; per favorire lo stesso esito, il compagno Mao auspicava qualche decennio dopo una bella guerra termonucleare, contando sul fatto che da una simile sforbiciata alla popolazione mondiale e dalla tabula rasa che ne sarebbe emersa sarebbero rimasti comunque più comunisti che reazionari, visto che i cinesi da soli erano circa un miliardo; dunque per favorire un’Europa più libera e più liberale, più aperta e più dinamica era necessaria la vittoria dell’estrema destra di Le Pen e della sinistra comunista europea, unite nella lotta contro l’idraulico polacco che ruba il lavoro ai francesi, contro l’ingresso dell’islamica Turchia che minaccia le radici culturali e religiose del continente, in difesa delle barriere alla libera circolazione delle persone, dei diritti e delle merci. Nient’altro che la vecchia alleanza no global che da anni unisce il radicalismo parolaio della sinistra alternativa alla destra xenofoba e protezionista in ogni angolo del pianeta. Purissimo prodotto di quello stesso processo da cui vorrebbe difenderci, che ridisegna i confini di destra e sinistra: la globalizzazione delle paure e la mondializzazione dell’egoismo.
L’Economist stigmatizza gli argomenti dei socialisti francesi quando parlano di un’Europa che possa essere forte di fronte agli Stati Uniti. Un’Europa, scrive l’Economist, “that can be forte face aux Etats Unis (strong in the face of the United States)”. E parafrasando il motto americano “E pluribus unum” – da molti, uno – osserva che nel caso dell’Europa dovrebbe essere l’inverso – da uno, molti – con questo singolare latinismo: “E unum pluribus”. Noi diremmo piuttosto “Ex uno plures”, ma tenderemmo a giudicare simili traduzioni frutto più di deliberata indifferenza che di ignoranza. Latino e francese non sono le lingue del futuro, della nuova economia e della grande politica. Per questo l’Economist invita a votare esattamente come Jean-Marie Le Pen e Fausto Bertinotti, perché vuole un’Europa che sia solo una grande area di libero scambio tra paesi incapaci di alcun coordinamento delle proprie politiche, dei propri interessi e della propria proiezione internazionale. Un’Europa in cui si parli in inglese ma si pensi in venticinque lingue diverse quanti sono i paesi che la compongono. Un’Europa dei willing, in cui l’egemonia americana (con Gran Bretagna al seguito) possa scegliere di volta in volta il gioco di alleanze più conveniente, secondo il vecchio motto: divide et impera (“divide and rule”). Dopo il triste esito del referendum francese e quale che sia l’esito di quello olandese il primo giugno, la copertina dell’Economist dovrebbe servire da ammonimento ai gruppi dirigenti europei. Perché noi restiamo convinti che a quell’augurio l’Europa debba comunque rispondere con un secco: no, thanks.