L’euroscetticismo progressista

Il primo paese scandinavo a entrare nell’Unione europea, la Danimarca, lo fa dopo un referendum vinto nettamente, meno del 40% di contrari, nel 1973. A caratterizzare la decisione, e l’argomentazione che la accompagna, è la mancanza di ogni retorica idealista rispetto a quanto era avvenuto nei sei paesi fondatori. In sostanza, la Danimarca entra nella Comunità trainata dalla propria agricoltura. Il suo maggiore mercato, la Gran Bretagna, lascia l’Efta e, caduto il veto gollista, entra nel Mec. La Danimarca non può che seguire a ruota. Anche perché la Politica agricola comune rappresenta un vantaggioso affare per l’economia agraria danese. Da allora, le élite politiche danesi hanno sempre presentato l’integrazione europea come una semplice soluzione pratica e utilitaristica, per cui a ogni avanzamento qualitativo dell’integrazione stessa l’elettorato si è sentito sostanzialmente manipolato. Ancora nel referendum del 1986 sul mercato unico l’allora primo ministro conservatore smentì gli oppositori convinti che questo non sarebbe stato che un altro passo verso una sempre più stretta integrazione. Fino all’Unione. “No – disse il primo ministro Schlüter – l’Unione è morta e stecchita”. Nessuna meraviglia che, appalesatosi il progetto europeo come qualcosa di vitale e avanzante, gli elettori abbiano reagito, nel 1992 e nel 2000 (sull’euro), in modo negativo. All’origine di questo atteggiamento sta certo la sovranità assai omogenea e antichissima dei danesi, nonché l’idea che essa fosse anche (a differenza di quanto accaduto in Germania, in Italia e in Francia) anche sostanzialmente virtuosa.
Ma un’altra spiegazione può essere ricercata in Svezia. Il maggiore paese nordico, entrato nel 1995, aveva per lungo tempo concepito una sua sovranità di neutralismo eticamente attivo (diverso da quello svizzero, più chiuso), in cui il multilateralismo e il particolare prestigio di Stoccolma in ambito Onu non concepiva però perdite di sovranità. La sovranità era parte di una strategia in qui la “libertà da alleanze” mirava a far inserire la Svezia nel gioco internazionale per rappresentare una versione particolarmente virtuosa e bilateralmente cooperante di democrazia occidentale. Un paradigma che raggiunge il suo acme nell’epoca della decolonizzazione, epoca in cui a capo del governo di Stoccolma è l’abile e carismatico Palme. Questi, fuori dalla Nato e senza nessuna intenzione di entrare nella Cee, agiva liberamente da mediatore di conflitti e da castigatore della politica di potenza, guadagnando favore e posizioni di mercato nel terzo mondo. E’ questo un paradigma che ha innegabilmente affascinato lo schieramento di sinistra in generale anche in Danimarca e Norvegia, membri Nato. Da cui la caratteristica peculiare scendinava di un euroscetticismo particolarmente progressista. La retorica euroscettica di sinistra vedeva infatti nella Ue solo “un’altra superpotenza” laddove invece occorreva essere contro ogni superpotenza. Una visione quasi del tutto rientrata se è vero che, conseguenze del No francese permettendo, oggi il Riksdag svedese si prepara a ratificare il trattato costituzionale europeo. E i danesi dopo l’estate voteranno per il loro referendum con i sondaggi che a oggi danno i favorevoli in vantaggio di circa 15 punti.
Oggi anche parte della sinistra radicale valuta in modo diverso l’Unione. Cosa è cambiato? Innanzitutto tanti anni di referendum e di discussioni hanno messo sotto controllo il livello di emozionalità e irrazionalità del dibattito, un tempo assai elevato presso gli euroscettici. Inoltre, proprio la Costituzione europea, spinge ad abbandonare l’usuale retorica circa la “Ue nuova superpotenza”. Spinge molti a pensare, insomma, che esistendo comunque le superpotenze, meglio allora una superpotenza multinazionale, che si espande pacificamente e si dota di valori comuni. Certo, spesso in passato i pro-europei, in ambedue i paesi, avevano cominciato in testa ai sondaggi per poi perdere la partita, possibilità concreta anche oggi. Il fatto è che rimane netta la mancanza di stimoli a sposare appieno un progetto economico comunitario integrato. I nordici sono con la Gran Bretagna i paesi più competitivi della Ue. I più competitivi in assoluto se si tiene conto del fatto che non possono contare su una piazza finanziaria come Londra e della loro virtuosità rispetto ai parametri di Lisbona o di Maastricht (pur rimanendo fuori dall’euro). Quindi, si domandano ancora molti, dando per scontata l’appartenenza alla Ue e al suo sempre più ampio mercato interno, perché una maggiore integrazione se l’euro comunque non viene governato in modo espansivo? E perché condividere valori costituzionali e nuove procedure decisionali (e forse una maggiore omogeneizzazione fiscale, un giorno) se tanto pochi a sud del Baltico sembrano comprendere che proprio un welfare ricco e ampio è la chiave della competitività? Date simili premesse, proprio il No francese, che si presenta come un voto per una Costituzione più sociale, potrebbe riportare verso l’euroscetticismo parte della sinistra scandinava.