Di fronte alle cifre dei redditi rese note dal ministero del Tesoro, un candido spirito del Settecento potrebbe davvero concludere che gli italiani, popolo fortunato, vivono nel migliore dei mondi possibili. Mentre un utopista dell’Ottocento o un egualitarista del Novecento sarebbe portato a credere che l’Italia sia diventata il paese più socialista del pianeta. Che pensare, infatti, di un paese in cui le classi un tempo sfruttate hanno in media raggiunto e superato il reddito dei loro datori di lavoro? Che pensare poi del fatto che la maggior parte delle imprese faticano, anche in tempi normali, a mettere assieme un reddito fiscalmente imponibile? Che pensare, se non che quelli che una volta si chiamavano “padroni” oggi sono diventati magnanimi distributori di ricchezze a prevalente vantaggio altrui?
A noi che viviamo in questo secolo è ben noto, purtroppo, quali inganni si celano dietro cifre il cui senso complessivo è la certificazione dell’iniquità eretta a fondamento della Repubblica. Quella che le cifre sui redditi imponibili mostrano in tutta la sua ingiustizia è una verità ormai arcinota: in Italia solo il lavoro dipendente paga regolarmente le imposte, mentre tutti gli altri redditi danno luogo a un’evasione di massa di proporzioni gigantesche. Ma non si tratta solo di questione morale o di equità redistributiva. L’evasione è una delle tante manifestazioni di fragilità e inadeguatezza della nostra struttura produttiva ai tempi della globalizzazione.
Negli anni Ottanta furono il debito pubblico e le svalutazioni competitive a tenere a galla molte delle nostre imprese, soprattutto quelle piccole. Poi, una volta accettati i vincoli di Maastricht e introdotta la moneta unica, l’incapacità delle nostre aziende di tenere il passo dei grandi paesi si è scaricata sull’evasione fiscale e sul lavoro. In entrambi i casi si è trattato di combinazioni micidiali. Debito e svalutazione hanno devastato il bilancio pubblico italiano, evasione e indebolimento del lavoro – fra contratti precari e salari al palo da un decennio – hanno fatto saltare qualsiasi possibilità di realizzare un duraturo patto sociale fra lavoro e capitale. Tutti questi elementi insieme hanno costituito un incentivo perverso per il nostro sistema produttivo, che ha potuto – in verità con sempre maggiore fatica – mantenersi sopra la linea di galleggiamento scaricando così i costi della globalizzazione e del mercato unico.
Questo gioco, che è stato forse l’elemento centrale su cui si è costruito il blocco sociale berlusconiano nell’ultimo ventennio, ha funzionato fino a quando la crisi non ha alzato bruscamente il livello dell’acqua nella vasca, facendo affogare molti di quelli che per anni – tirando via di tanto in tanto il tappo – erano riusciti a tenere la testa fuori. È quindi apprezzabile che il governo Monti abbia deciso di mettere fine alla lunga e vergognosa stagione di auto-riduzione del carico fiscale praticata da una parte della popolazione.
Colpisce invece come non si registri un analogo cambio di rotta per quanto riguarda il lavoro. Anzi, si sta paradossalmente assistendo a una brusca accelerata nella direzione di una ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro, quasi si volesse forzare solo su quell’elemento l’aggiustamento necessario al nostro sistema produttivo per restare a galla. Ma in questo modo non si uscirà dal circolo vizioso dell’ultimo ventennio. Se – come tutti concordano e come i dati mostrano – il problema del nostro paese è la modesta dinamica della produttività e la bassa specializzazione produttiva, è chiaro che la strada da seguire dovrà essere un’altra. Avviare una dinamica virtuosa significa mettere i sigilli al tappo della vasca e costringere le nostre imprese a innovare e ristrutturarsi, anche con l’aiuto di ben mirate politiche pubbliche, per restare con la testa fuori dall’acqua. Il nostro paese si trova davanti alla scelta fra le solite scorciatoie che durano una stagione (e non risolvono il problema) e un’innovazione dagli effetti profondi e duraturi, che affronti le questioni alla radice. La strada seguita fin qui dal governo Monti, a dispetto di tanta propaganda, è stata, purtroppo, la prima.