“Presidente, lei nella sua vita ha preso più applausi dai democristiani o dai comunisti?”, gli chiesi una volta pensando alle infinite standing ovation che ogni manifestazione del Pd, il suo partito, o dell’area di centrosinistra riservava a Oscar Luigi Scalfaro. “Indubbiamente la domanda è valida”, rispose il presidente con un guizzo di umorismo dei suoi. Disse che l’affetto che gli tributavano oggi le platee di sinistra non era paragonabile all’entusiasmo di quando era iniziata la sua vita pubblica nella Dc, ma perché era diverso il clima: il dopoguerra, gli anni della ricostruzione, il ricordo del modo “incantevole” in cui parlava De Gasperi gli impedivano di accettare il paragone. Ma sapeva che alcuni dicevano, pensando di insultarlo, che negli anni era diventato comunista: “Ci sono delle persone per le quali è già un premio Nobel che abbiano una valutazione, pretendere che sia anche esatta mi pare eccessivo”, commentava divertito.
Era un uomo autentico, che restando se stesso e senza scimmiottare il linguaggio e la cultura altrui, sfondava le barriere quando ancora esistevano. Il fatto è che Scalfaro sapeva bene di aver avuto, come politico, un curioso destino. Era diventato un beniamino della sinistra, lui che di sinistra non era mai stato; era diventato il più forte antagonista di quello che pure osava proclamarsi “l’erede di De Gasperi”, Silvio Berlusconi. Non era stato l’unico, certo. Ma era il più esemplare, e non solo perché gli era capitato di trovarsi al Quirinale negli anni del berlusconismo nascente e trionfante, e di essere stato l’unico a potergli dire – e ad avergli detto – dei no. Ma anche perché di Scalfaro, a differenza di altri, nessuno poteva dire che fosse in alcun modo collaterale o subalterno alla sinistra, come invece mormoravano da sempre, anche nella Dc, i nemici dei basisti, i “comunistelli di sagrestia”. Scalfaro era stato un democristiano centrista, un cattolico osservante e non problematico come i “cattolici del no” che leggevano Scoppola e contrastarono Fanfani ai tempi del referendum sul divorzio; era in tutto e per tutto un moderato.
Dopo arrivava il suo carattere, il senso della dignità, la repulsione per il servilismo, il conformismo, la disonestà e l’arrivismo, e anche la sua idea “evangelica” e conciliare del potere come servizio e predilezione per i poveri. Ma la sua avversione al berlusconismo non nasceva da una sensibilità sociale o costituzionale “di sinistra”; la sua opposizione a Berlusconi era un fatto prima di tutto istituzionale. Scalfaro era un uomo della Costituzione. Rifiutò, da presidente della Repubblica e dopo, l’idea, vincente nel corso degli anni Novanta, che esistesse una Costituzione materiale e che quella scritta fosse superata dai fatti. Fu questo, il “ribaltone” che tanto odio gli ha attirato e che ispira ancora oggi tanti commenti imbarazzati e freddi nel giorno della sua morte: il rifiuto dell’idea che “l’Unto dal Signore” potesse dettare le regole del gioco indipendentemente dal ruolo del parlamento e dall’iniziativa del Quirinale nei limiti previsti dalla Carta. Fu il no al “presidenzialismo di fatto” che perfino alcuni costituzionalisti teorizzavano allora. Fu il rispetto del parlamento come depositario della sovranità e della volontà popolare.
Non fa male rifletterci oggi che la Seconda Repubblica e la stagione berlusconiana, secondo molti osservatori, giungono al capolinea. E se Giorgio Napolitano ha potuto battezzare con autorevolezza la nascita di un governo non “eletto” e che trae dalla fiducia del parlamento la sua legittimazione, se dunque l’Italia ha avuto una chance di salvarsi dal disastro economico e politico al quale il governo “eletto” di Berlusconi la stava conducendo, lo dobbiamo probabilmente anche al coraggio di chi, precedendolo al Quirinale, tenne testa alle prepotenze del berlusconismo allora trionfante in nome della Costituzione, un coraggio che in molti ancora oggi non perdonano a Scalfaro. Un coraggio – e un’idea alta della politica e del ruolo del parlamento – che lo portarono a contrastare, in piena Tangentopoli, il clima anti-casta che anche allora imperava, e che arrivò a lambire proprio il Quirinale. “Non ci sto”, gridò il presidente in diretta televisiva. Aveva ragione, e passò alla storia. Ma dopo quella frase memorabile che è diventata il suo logo, e che allora ripetevano anche i bambini quando vedevano la sua faccia in tv, il capo dello stato italiano aggiunse, l’abbiamo risentito in questa giornata dolorosa: “Non parlo per la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento, ma per tutelare l’istituto costituzionale della presidenza della Repubblica”. Dignità, coraggio, coscienza del ruolo che si ricopre: nel dire grazie a Oscar Luigi Scalfaro, più che rimpianto per il passato, si sente molta voglia di futuro.