Di questi tempi il discorso pubblico sembra vittima della sindrome del “gioco a somma zero”, per cui ogni decisione politica si risolverebbe sempre in un braccio di ferro tra gruppi di pressione, forze, partiti, dove a un vincitore deve corrispondere sempre un vinto. Quindi: non è possibile fare buone riforme se non scontentando qualcuno (corollario: più sono gli scontenti migliore è la riforma); il dialogo sociale è un freno al raggiungimento di soluzioni ottimali (corollario: meglio un governo che decide ciò che è meglio “tecnicamente” senza ascoltare nessuno e possibilmente senza curarsi del consenso); il problema dell’Italia è il fatto che ciascuno difende il proprio interesse (corollario: il modo migliore per preparare l’opinione pubblica alle riforme necessarie è una campagna di demonizzazione verso questa o quella categoria).
La cosa curiosa sul piano culturale è che questa visione della politica accomuna una parte della tradizione marxista (lo stato come espressione di un interesse di classe) alla tradizione di pensiero conservatore di impronta americana ispirata alla public choice e a certe conclusioni della celebre “scuola di Chicago” (l’idea che l’intervento pubblico sia sempre e comunque l’effetto dello scambio tra politici interessati al proprio tornaconto e gruppi di interesse organizzati). Di quest’ultima visione si è avuto del resto esplicita teorizzazione in un recente editoriale su la Repubblica.
Tutto il contrario dalla linea di pensiero riformista, spesso di derivazione genuinamente liberale, che ha ispirato tra gli altri l’impianto di pensiero della moderna teoria della finanza pubblica. Secondo tale impostazione, l’intervento pubblico si giustifica principalmente per la possibilità di offrire soluzioni collettive a problemi non risolvibili in modo “decentrato” (vale a dire tramite lo scambio di mercato). La funzione dell’intervento pubblico è dunque non solo quella di garantire una distribuzione equa delle risorse, ma di perseguire soluzioni efficienti ai problemi posti dalla necessità di fornire beni pubblici, di correggere gli effetti indesiderati dell’interazione di mercato, di fornire beni per i quali soluzioni concorrenziali non sono praticabili, di risolvere le inefficienze poste da difetti di informazione degli operatori.
Dunque, il buon intervento pubblico crea valore, è quel che si dice un “gioco a somma positiva”. Ne segue che una soluzione consensuale è astrattamente sempre possibile, ed è sempre possibile compensare chi subirebbe i costi di una riforma. Anzi, il fatto che si possa raggiungere un ampio consenso è la prova della validità di una soluzione. Un’idea ben chiara ad esempio al celebre economista svedese Knut Wicksell, che a fine ottocento suggeriva l’unanimità quale regola decisionale per i parlamento. Per carità, questa sarebbe una soluzione estrema ed utopistica, che sottovaluta i costi di negoziazione. Ma è pur sempre un buon esercizio di disciplina mentale quello di trovare il modo di rendere una riforma accettabile per il più largo numero di soggetti di una collettività. È un vero peccato che tale modo di guardare all’intervento pubblico e alla politica abbia in questo momento così pochi estimatori, anche a sinistra. Credo sia anche questo un effetto dell’egemonia del pensiero liberista degli ultimi due-tre decenni. Speriamo che passi presto.