Sembra oramai certo che la riforma del mercato del lavoro sia una priorità dell’agenda politica, per rispondere alla crisi e promuovere la crescita. Da più parti viene porto l’invito ad affrontare il tema senza pregiudizi. In questo spirito, ritengo che sia utile ribadire quattro dati di fatto, ben noti a chi studia il mercato del lavoro ma che sfuggono spesso al dibattito.
Il primo dato è che la rigidità del mercato del lavoro italiano è ampiamente sopravvalutata. Per l’Italia, l’analisi dei flussi mostra tassi di riallocazione dei lavoratori estremamente elevati, in assoluto e relativamente agli altri paesi. Questo fatto è avvalorato da pressoché tutti gli studi esistenti, a prescindere dai dati e dalla metodologie utilizzati. Analoga la conclusione che si trae dalla lettura attenta degli indici di rigidità dei regimi di protezione dell’impiego (RPI), valutazioni quantitative della facilità di licenziamento. Si prenda, ad esempio, l’indice Ocse, il più accreditato e citato indice di rigidità dei RPI, calcolato per ben quarantasei paesi. L’ultima versione del 2008 evidenzia una relativa facilità di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato nelle imprese con più di quindici dipendenti (quel segmento del mercato del lavoro italiano tacciato di eccessiva rigidità in uscita cui si applica l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori). Infatti, l’indice Ocse relativo ai lavoratori a tempo indeterminato in imprese con più di quindici dipendenti posiziona l’Italia al 10° posto, al livello di Danimarca e Irlanda.
Il secondo dato di fatto è che gli effetti della flessibilizzazione in uscita su occupazione e disoccupazione sono assai incerti dal punto di vista teorico ed empirico. In particolare, gli studi empirici esistenti non sono ancora riusciti a stabilire con certezza una relazione causale fra rigidità dei RPI ed esiti economici, e le conclusioni di policy si basano spesso su semplici correlazioni o su coincidenze temporali. Per l’Italia non si riscontra neppure una evidente coincidenza temporale fra le due principali riforme in materia (L. 196/1997 e L. 30/2003) e le dinamiche del mercato del lavoro, che registrano un’inversione di tendenza già a partire dal 1995 e che non mostrano alcun apprezzabile discontinuità nel ventennio successivo.
In terzo luogo, la facilità di licenziamento esercita una pressione al ribasso sui salari. Mentre gli effetti sull’occupazione sono, per quanto sopra detto, ancora incerti, è oramai ben documentata la relazione fra RPI e salari, francamente ben prevedibile. E’ interessante notare che gli effetti dei RPI sui salari è stata una sorta di tabù nel dibattito accademico e di policy, che si è concentrato quasi esclusivamente sugli effetti in termini di efficienza del mercato del lavoro (la rigidità, riducendo la riallocazione del lavoro, causerebbe una diminuzione dell’efficienza). Tuttavia, una crescente e convincente evidenza empirica dimostra come le istituzioni del mercato del lavoro, RPI in primis, sortiscano importanti effetti sulla struttura salariale. In Italia questi si sono manifestati anche in una crescita dei differenziali salariali fra coorti, a tutto svantaggio dei giovani, fra i quali è particolarmente alta l’incidenza di lavori a tempo determinato. Si noti che, come hanno sottolineato tanti e illustri economisti, la distribuzione personale e funzionale del reddito può avere importanti effetti sulla domanda aggregata e, da qui, sulla crescita.
In quarto luogo, occorre esser consapevoli cha facilitare i licenziamenti in periodi di crisi comporta dei gravi rischi sull’occupazione. Giova a tal proposito citare un bel documento a firma congiunta del Fondo Monetario Internazionale e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (http://www.osloconference2010.org/discussionpaper.pdf), che facendo riferimento alle riforme strutturali del lavoro tese ad introdurre maggiore flessibilità per alcune tipologie contrattuali (specificamente i lavori a tempo determinato), rileva che quei paesi che hanno attuato tali riforme pagano adesso un prezzo maggiore in termini di aumento della disoccupazione. Al tempo stesso, e in sintonia con quanto affermato in precedenza, nel documento viene espresso un cauto scetticismo sulla presunta capacità di tali riforme strutturali di generare occupazione a crisi conclusa: “In principio, il mercato del lavoro duale dovrebbe portare benefici durante la ripresa, poiché le imprese dovrebbero essere più prone a reimpiegare i lavoratori con contratti temporanei, piuttosto che permanenti. Se ciò si verificherà è ancora da vedere” (pag. 36).
Fin qui i fatti. Le conclusioni che seguono sono chiaramente opinabili. Ritengo che la segmentazione del mercato del lavoro italiano sia un problema grave, che vada affrontato urgentemente e in maniera organica. Certamente occorre perseguire una maggiore uniformità della legislazione lavoristica, ma anche fiscale e contributiva. Tuttavia, la direzione da imprimere alle riforme non appare scontata. In particolare, il luogo comune che vuole il lavoro a tempo indeterminato quale sostanzialmente protetto rispetto ai licenziamenti, e che suggerirebbe di intervenire senza indugi su questo fronte, pare contraddetto dai fatti, anche in un’ottica comparata. L’anomalia italiana sembra essere, piuttosto, la scarsa protezione contro i licenziamenti nelle aziende di piccolissime dimensioni e un livello intollerabile di irregolarità. In questo quadro, una riduzione delle tutele oggi garantite appare discutibile sul piano logico e potenzialmente pericolosa nell’attuale fase congiunturale.