Presentando al Senato il suo programma di governo, Mario Monti ha affermato che per riformare il mercato del lavoro “è necessario colmare il fossato che si è creato tra le garanzie e i vantaggi offerti dal ricorso ai contratti a termine e ai contratti a tempo indeterminato, superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi”. Molti hanno colto nelle parole del presidente del Consiglio un’implicita adesione alla proposta del cosiddetto contratto unico, autorevolmente sostenuta da Pietro Ichino e da Tito Boeri.
I modelli di contratto unico elaborati dai due studiosi milanesi differiscono sensibilmente, ma condividono la medesima idea di fondo, fatta propria anche dalla Commissione Ue: minori vincoli al licenziamento, associati a più robuste tutele “nel mercato” e a meccanismi di incentivo alla stabilizzazione, portano a superare la segmentazione del mercato del lavoro e a ridurre il precariato. Ciò implica la revisione del meccanismo della tutela “reale” contro il licenziamento illegittimo garantita dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che, nella proposta di Ichino, porterebbe al suo definitivo superamento, mentre nella proposta di Boeri, alla sua disapplicazione nei primi tre anni di impiego del lavoratore (in pratica, un lunghissimo periodo di prova).
Si tratta di proposte apparentemente ragionevoli, ma che non lo sono perché assumono come dati di fatto dei presupposti inesistenti. Il primo è forse il più sorprendente per un giurista del lavoro: la segmentazione del mercato del lavoro italiano troverebbe la sua causa principale nella legislazione troppo rigida in materia di licenziamento, che indurrebbe i datori a ricorrere a forme contrattuali temporanee. Ma simili forme contrattuali sono state introdotte nell’ordinamento italiano da una legislazione che negli ultimi 15 anni ha trasformato il mercato del lavoro in un supermarket della flessibilità senza pari in Europa. Affermare che, per ridurre le sperequazioni prodotte da tale legislazione, è necessario erodere i diritti dei pochi che ancora li hanno, ha quasi il sapore del paradosso.
Il secondo presupposto inesistente attiene proprio ai diritti che s’intendono “rimodulare”, ovvero al diritto alla stabilità del posto di lavoro, che in Italia sarebbe garantito in modo talmente rigido da costituire un freno alla competitività delle aziende. In realtà un’impresa che intenda licenziare un lavoratore per esigenze organizzative o economiche è del tutto libera di farlo. Lo prevede innanzi tutto la normativa sui licenziamenti collettivi (cioè almeno 5 nell’arco di 120 giorni), che impone alle imprese costi e oneri inferiori rispetto a quanto previsto in molti altri paesi dell’Ue. Nessun vincolo sussiste neppure a licenziare un singolo lavoratore per ragioni economiche, ad esempio perché si intende sopprimere un ufficio (magari per esternalizzarne l’attività). La giurisprudenza italiana degli ultimi anni ha anzi progressivamente “liberalizzato” il cosiddetto licenziamento per giustificato motivo oggettivo; un orientamento che il passato governo ha inteso rafforzare con la norma del “collegato lavoro” che preclude al giudice di estendere il proprio controllo “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro” (art. 30, co. 1, legge n. 183/2010).
Ma, si afferma, la vera anomalia italiana è l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori che garantisce il diritto alla reintegra. Il fatto è che la reintegra in caso di licenziamento illegittimo è ampiamente diffusa negli ordinamenti degli stati dell’Ue. Si obietta che, nei paesi che prevedono la reintegrazione, come ad esempio in Germania (dove la decisione a riguardo spetta al giudice), la controversia di norma si conclude con un accordo tra datore e lavoratore su un’indennità monetaria compensativa. Ma neppure sotto questo profilo le differenze rispetto all’Italia appaiono così rilevanti: anche nel nostro paese le controversie fondate sull’art. 18 in molti casi non portano all’effettiva reintegrazione del lavoratore, che opta comunque per la tutela risarcitoria. Ciò che rileva è la funzione di deterrente che la sanzione della reintegrazione prospetta, e questa non appare diversa in Italia rispetto agli altri paesi che la prevedono.
Neppure regge l’argomento per cui, anche nella versione più liberal (quella di Ichino), l’articolo 18 comunque non sparirebbe ma resterebbe a presidiare i licenziamenti discriminatori. Spetta infatti al lavoratore dimostrare che il licenziamento è illegittimo perché discriminatorio e una simile inversione dell’onere della prova rende la tutela di fatto inapplicabile: sempre che il datore non sia talmente sprovveduto da comunicare per iscritto al lavoratore di licenziarlo perché sindacalizzato o omosessuale… D’altra parte basterebbe considerare quanto già oggi accade nelle piccole imprese, dove la tutela reale si applica solo se viene provata la discriminazione, per comprendere che la possibilità di ottenere la reintegra in virtù della natura discriminatoria del licenziamento tende allo zero.
Quanto al superamento della segmentazione del mercato del lavoro, non si vede quale interesse abbia un lavoratore ad essere assunto con un contratto formalmente a tempo indeterminato che lo tutela perfino meno di quello a termine: quest’ultimo infatti non solo per essere utilizzato deve essere motivato dal datore adducendo reali esigenze temporanee, ma garantisce al lavoratore quanto meno il mantenimento dell’impiego fino alla scadenza pattuita e si trasforma in rapporto stabile se si protrae oltre i 36 mesi (anche per effetto di più contratti). Ne consegue quindi che sostituendo i contratti a termine con il contratto unico il problema del precariato non solo non sarebbe risolto, ma finirebbe per accentuarsi.
La proposta di contratto unico non ha trovato adesioni entusiastiche neppure da parte delle organizzazioni datoriali: essa infatti, soprattutto per i piccoli imprenditori, prospetta un aggravio dei costi connessi al licenziamento che questi non intendono accollarsi. Il rischio è allora che, per avere l’assenso del fronte imprenditoriale, possa passare un modello di contratto unico che non rafforza le tutele nelle piccole imprese e riduce al minimo i costi per le grandi (e con essi le prospettate tutele nel mercato).
Così si renderebbe palese che, attraverso il contratto unico, si persegue il puro e semplice obiettivo di minare il diritto alla stabilità del posto di lavoro e, per questa via, di indebolire ulteriormente la forza dell’azione sindacale. Non è un caso infatti che l’articolo 18 sia una norma contenuta nello statuto dei lavoratori, la legge cioè che promuove l’azione del sindacato in azienda. I padri dello statuto ben sapevano che solo mettendo i lavoratori al riparo da ogni rischio di monetizzazione del licenziamento ingiustificato si sarebbe garantita la libertà degli stessi di rivendicare i propri diritti e difendere i propri interessi, senza timore di ritorsioni. Il perseguimento di politiche di contenimento del costo del lavoro attraverso l’indebolimento del potere negoziale e dell’autonomia del sindacato nelle grandi imprese, se non l’obiettivo consapevolmente perseguito, è dunque l’effetto ultimo della cancellazione dell’articolo 18.