Negli ultimi tempi il modello tedesco è tornato al centro del dibattito pubblico. Una delle sue caratteristiche fondamentali è la codeterminazione nelle imprese con un numero superiore a 500 addetti, che prevede una rappresentanza paritetica dei lavoratori nell’organo in cui si prendono decisioni strategiche e si scelgono i manager che le eseguono. La codeterminazione ha indubbiamente favorito le caratteristiche positive cui si fa spesso riferimento nel dibattito italiano. E ha anche aperto la strada a una flessibilità, sia microeconomica sia macroeconomica, che ha caratteristiche ben diverse da quella, a nostro giudizio iniqua e inefficace, perseguita dal governo Berlusconi, che viene al momento richiesta da Fiat e che trova un sorprendente appoggio persino in una parte del Partito democratico.
A livello microeconomico, il modello tedesco ha permesso di creare una divisione del lavoro e delle specializzazioni condivisa dalle imprese e dal sistema di formazione pubblico. Datori di lavoro e sindacati hanno insieme creato mercati per lavori specializzati accettando una loro standardizzazione nelle diverse imprese. Essi sono stati ben coscienti del fatto che un mercato per lavori qualificati non è il prodotto spontaneo di una economia incontrollata; esso richiede non solo coordinamento ma anche un’adeguata supervisione da parte delle organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori.
A ogni impresa potrebbe convenire far fare ai suoi addetti lavori meno qualificati, se le altre imprese continuassero a offrire lo stesso livello di qualificazione da cui attingere in caso di maggior fabbisogno di competenze di livello elevato. Tuttavia, se tutti si comportano così, l’esito finale è la distruzione del mercato per il lavoro qualificato. Le organizzazioni centralizzate non sono dunque necessariamente un ostacolo alla flessibilità di mercato. Se seguono opportune politiche e vocazioni istituzionali, possono costituire anzi uno strumento indispensabile per il suo sviluppo.
A livello macroeconomico, la flessibilità del modello tedesco è tanto efficace da costituire, se non imitato anche dagli altri paesi, un serio problema per la moneta comune. Nell’area dell’euro, il riallineamento della competitività tra le economie è interamente demandato alla flessibilità di prezzi e salari, ma in una economia moderna basata su conoscenze e competenze specifiche tale flessibilità difficilmente può essere ottenuta come effetto della concorrenza tra lavoratori senza che si produca un impoverimento dello stock di competenze e specializzazioni. Insistere su questo tipo di flessibilità genera un mercato del lavoro duale che oltre a essere ingiusto per la fascia più debole (spesso, ma non solo, giovani e donne) produce insieme scarsa produttività e disoccupazione.
Nel sistema tedesco la flessibilità è garantita, invece, da organizzazioni centralizzate di datori di lavoro e lavoratori; queste, mentre mantengono la crescita dei salari al di sotto della crescita della produttività, svolgono anche politiche inclusive, come la settimana corta, che in caso di necessità permettono una condivisione delle difficoltà.
Grazie al suo sistema di cooperazione e codeterminazione, la Germania ha accumulato un surplus commerciale cui non può non corrispondere un deficit degli altri paesi. In questo senso alla Germania si può rimproverare di avere sfruttato a proprio vantaggio, senza curarsi delle conseguenze per l’economia europea nel suo insieme, un sistema di relazioni industriali assente in altri paesi, come ad esempio l’Italia. Sono dunque opportune le pressioni di chi vorrebbe che essa attuasse politiche più espansive e facesse la sua parte per risolvere il problema degli squilibri commerciali che ha contribuito a creare. Al tempo stesso, stupisce che nel nostro paese ci sia chi continua a far riferimento a fallimentari ricette basate sull’indebolimento dei diritti dei lavoratori invece di prendere a esempio un modello che, oltre a essere più equo e vicino alle nostre tradizioni culturali, ci sta facendo sentire tutto il peso della sua notevole efficienza.