La giustizia di Obama

Tutti speriamo che sia diventato archeologia lessicale il “premetto che non sono anti-americano” usato come lasciapassare per accedere legittimamente al dibattito pubblico sulle questioni internazionali. In questo caso, però, devo premettere che sono americano quanto italiano: ho sposato una cittadina americana, anch’ella convinta obamiana (per qualche tempo persino vicini di casa nel quartiere di Hyde Park a Chicago); sono in procinto di diventare padre di una cittadina americana; frequento l’America dal 2002, vivo in America da tre anni e insegno in un’università cattolica, culla del “cattolicesimo sociale americano” che divenne cultura politica e legislazione negli anni di Franklin Delano Roosevelt. Non posso ancora votare, ma se potessi voterei Obama alle prossime elezioni e, se fosse possibile, vita natural durante.
Da italo-americano quale sono, per destino e destinazione, assisto con un certo sconcerto agli entusiasmi di certi filo-americani italiani per la soluzione (si direbbe finale) del caso Osama bin Laden. A leggere certe prese di posizione italiane, persino tra i riformisti, sembra che in Italia si abbiano meno domande di quante se ne dovrebbero avere (e meno di quante ne abbiano alcuni americani) sul modo in cui la vicenda si è conclusa, ovvero con l’esecuzione di Osama bin Laden da parte del commando inviato in Pakistan.
Fin dall’inizio della settimana, la questione è emersa più volte nelle discussioni nelle classi dei miei corsi di storia del cattolicesimo americano. Figli della generazione dell’11 settembre, i miei studenti avevano nove-dieci anni, quel giorno di quella mattina di sole a New York. L’11 settembre li strappò a quei banchi di scuola (dovettero fuggire fisicamente dalle scuole e scappare, per timore di altri attacchi) e li mise di fronte a un male personale e impersonificato in Osama bin Laden. Nel corso di quest’ultimo decennio, molti di quei bambini sono diventati studenti universitari e nella notte tra domenica e lunedì hanno vissuto sui campus accademici la celebrazione della condanna a morte di Osama: l’hanno celebrata, oppure l’hanno ignorata, oppure l’hanno vista celebrare. In molti campus (e in molti campus cattolici) si è festeggiato tutta la notte, non diversamente che in Times Square o davanti alla Casa Bianca. Per alcuni studenti è stata un’occasione come le altre per fare bisboccia; per altri è stata una vera liberazione dall’incubo, una rivincita, una vendetta; per altri ancora, la speranza di non dover andare a combattere in Asia centrale e di non dover vedere amici, fratelli e sorelle andare a combattere contro Osama.
I teologi cattolici americani sono stati, finora, tra i pochi a fare qualche domanda sull’esecuzione di Osama: più o meno sempre gli stessi che avevano espresso il loro dissenso nel 2003 rispetto alla guerra in Irak (molti meno si erano opposti alla guerra in Afghanistan nel 2001). Alcuni si fanno latori di un’attitudine teologica-pastorale di stampo profetico quale l’esigenza del perdono o di una preghiera per l’anima di bin Laden; altri tentano di interrogarsi sulla legalità di un’esecuzione extragiudiziale e sull’accettabilità morale di un epilogo scritto come un copione di Hollywood, ma chiaramente vergato a furor di popolo. Da poche altre chiese “storiche” americane emergono voci simili, attente a non farsi travolgere da una macabra aria di festa che è difficile distinguere da un esorcismo contro la paura della decadenza americana.
Il mainstream americano è altra cosa. Il mondo della comunicazione americana ha perso pochissimo tempo a porre domande: schiettamente revanscista anche il messaggio rivolto dalle star della tv più liberal e più obamiana come Jon Stewart e Stephen Colbert (ironicamente, esattamente gli stessi che nel settembre scorso avevano convocato migliaia di americani a Washington per un “raduno per la tutela della sanità mentale”). Solo Chris Matthews, conduttore della ancor più liberal MSNBC, si è distinto per aver detto che “questo non è il momento di festeggiare; è il momento di pregare”. L’America è pur sempre “una nazione con l’anima di una chiesa”, come disse Chesterton. Ma se si fa un confronto tra il mondo dei media americani e le celebrazioni sui campus universitari, queste ultime hanno le attenuanti generiche di essere state convocate da diciannovenni, per di più stressati per gli esami di fine anno ormai incombenti.
La questione grave, che molti osservatori italiani (anche cattolici) filoamericani non colgono, è che il declino americano non è stato scacciato dalla morte di Osama, ma certificato dalle celebrazioni di quella morte. Il momento storico dell’esecuzione di Osama e le reazioni del pubblico americano trovano una nazione mai come prima sguarnita dal punto di vista morale. Come storico e teologo cattolico, mi è evidente che ora gli Stati Uniti sono una nazione priva di un cattolicesimo capace di osservare, comprendere ed esprimere al resto del paese un giudizio sui tempi moderni: ai tempi del Vietnam, c’erano Dorothy Day e Thomas Merton. Oggi, i leader cattolici sono altra cosa. Nell’ultima intervista concessa a “60 Minutes on CBS” dall’arcivescovo di New York, il “papa americano” si è ingenuamente prestato a fare la caricatura del cattolico irlandese: birra, baseball e amore per la mamma (e per il papa, of course). I vescovi cattolici si concentrano sulla morale delle “life issues” (aborto e bioetica), ma dal punto di vista sociale hanno silenziosamente sposato il “prosperity gospel” dell’ognun per sé e Dio per tutti. Il reaganismo cattolico è la spina dorsale dell’insegnamento morale del cattolicesimo americano di oggi: silenziosamente sta arrivando anche sulle coste del cattolicesimo italiano (come abbiamo già argomentato qui).
Tra la dottrina tradizionale sulla guerra e la guerra al terrore c’è un abisso concettuale, con cui il “discorso su Dio” non ha ancora fatto i conti. Se i teologi della guerra fredda alla Reinhold Niebuhr avevano tentato di incastrare dottrina della guerra giusta e arma nucleare, l’11 settembre 2001 ci ha portato fuori dal mondo degli Stati sovrani costruito col trattato di Westfalia nel 1648. Anche per questo, viste da qui, non stupiscono le reazioni e le celebrazioni degli americani per la morte di bin Laden, il nemico ucciso in guerra. Stupisce la passiva accettazione, da parte di molti commentatori italiani, della reazione di un’America che ha perso la bussola morale, anch’essa extra-territorializzata a Guantanamo: una bussola morale che Obama tenta di recuperare, di fronte a poteri ben più forti del mandato elettorale delle urne. Non sappiamo se ci fossero alternative all’uccisione di bin Laden. Però sappiamo che ci sono alternative a vedere nell’esecuzione di Osama un momento alto nella storia americana. Da italiano-americano, sono abituato a vergognarmi di Berlusconi di fronte ai miei studenti e colleghi americani. Non vorrei dovermi vergognare anche per quelli che tentano di mettere fine al berlusconismo con un americanismo che non ha molto da invidiare a quello dei neocon di risulta.