La richiesta di arresto per Alberto Tedesco, ex assessore della sanità in Puglia, attualmente senatore, scuote il Pd. E quale partito non sarebbe scosso, dalla richiesta di arresto di un suo senatore? (A pensarci bene, qualche partito del genere c‘è, ma non è il caso di parlarne adesso). Per tutti i parlamentari chiamati a stabilire se la documentazione inviata dai magistrati giustifichi la richiesta, si tratta di capire anzitutto cosa c‘è scritto in quei documenti. Si tratta di valutare se sussista il fumus persecutionis, e se il senatore sia oggi nelle condizioni di reiterare il reato o di inquinare le prove (l’ipotesi di fuga, anche senza leggere gli incartamenti, tenderei a escluderla). Per tutti, c‘è da consultare qualche faldone, e poi esprimere un voto. Per l’opinione pubblica e i cittadini interessati, ai quali non si può chiedere di compulsare le carte, la vicenda prende invece un altro significato, poiché da essa si fa discendere un giudizio sui rapporti fra politica e magistratura. E qui sta in campo un argomento, il seguente: come ci si può indignare di fronte alla richiesta della maggioranza di sollevare conflitto di attribuzioni innanzi alla Corte Costituzionale, sulla base della tesi francamente improbabile per non dire assurda che Berlusconi credesse veramente nella favola della procace nipote di Mubarak, come si può ritenere che in realtà con quel voto si è inteso solo sottrarre Berlusconi ai suoi giudici naturali, e poi non votare per consegnare Tedesco alle patrie galere?
Già, come si può? Una risposta potrebbe essere: perché Ruby è Ruby e Tedesco è Tedesco. Perché i casi giudiziari sono casi individuali, e vanno valutati, per l’appunto, caso per caso. Chiedendosi per esempio se sia ragionevole ritenere che il pericolo di reiterazione del reato e l’inquinamento sussistano adesso, a distanza di anni dai fatti e dall’apertura dell’inchiesta, e non per tutto il tempo in cui Tedesco, indagato, non era ancora in Parlamento ma nel Consiglio regionale dove però una richiesta di arresto non lo ha raggiunto.
Ma il Pd è scosso. Comprensibilmente scosso. L’opinione pubblica non capirebbe, si dice, parlerebbe di due pesi e due misure, una per i nostri e una per i loro, il salvacondotto a Tedesco e la gogna a Berlusconi, e così via. Il lettore che non si sia già indignato per il troppo raziocinare di questo articolo, provi però a trovare, se ne ha la pazienza, una definizione accettabile di civiltà giuridica liberale che si possa costruire su una preoccupazione del genere. Si chieda se si può votare pro o conto l’arresto di una persona, in virtù di quel che l’opinione pubblica capirebbe o non capirebbe.
Certo, un partito politico deve comunque porsi il problema di farsi capire dall’opinione pubblica. Ci mancherebbe pure. Qui, però, casca l’asino. Ossia la cultura politica del Pd, e di tutto il centrosinistra. Perché quel che semini, quello raccogli. Perché sino a quando avrà corso l’argomento che “tanto, son tutti uguali”; sino a quando il voto del Parlamento sarà presentato non come un discrimine, un vaglio, ma un ostacolo al lavoro della magistratura – il voto del Parlamento, dico, non il parere di una qualunque assemblea condominiale – sarà veramente dura imbastire qualunque discorso sulle garanzie e riconoscere una qualunque dignità a quel voto, comunque sia espresso.
Di quel che ne va nel giudizio del Parlamento ho detto. Di quel che ne va per l’opinione pubblica anche. Resta da dire quel che ne va, secondo l’appassionato parere espresso dalla filosofa Roberta De Monticelli sul quotidiano il Fatto, per Massimo D’Alema, che la stampa chiama in causa per i suoi rapporti politici con Tedesco. La De Monticelli si appella a comuni studi universitari pisani, comuni maestri nelle cose della filosofia che in quei lontani anni additavano il giovane D’Alema come esempio alle nuove matricole come la De Monticelli, e scomoda addirittura una celebre pagina di De Sanctis su Schopenhauer e Leopardi, sulla differenza fra pessimismo e cinismo, per rivolgere il suo appello accorato. Un appello accorato perché si arresti un uomo: “Non negare l’arresto, non fare in modo che sia negato. Perché se no è davvero perduto tutto. L’onore, la memoria, il senso della nostra studiosa giovinezza”. Ora, passi per la memoria, pazienza per l’onore, sorvoliamo pure sulla supposta capacità di D’Alema (che è peraltro deputato, dunque in Senato non siede e non vota) di coartare il giudizio della maggioranza dei parlamentari, ma la “studiosa giovinezza”? Cara Roberta, permettimi di darti del tu come si usa tra colleghi e di chiederti, in tutta franchezza, come fai a sapere tu che un voto contrario alla richiesta sarebbe tanto moralmente indecente. Se hai letto le carte, perché non spendi una parola circostanziata su di esse, come so che fai sempre e chiedi ai tuoi allievi di fare nel tuo lavoro di studiosa e di docente? Perché, se ritieni in questo caso di non doverlo fare, considerando che non tocca a te ma ai parlamentari (e questo in verità potrei capirlo, non si può legger tutto), perché non ti rivolgi a D’Alema (o più efficacemente a qualche senatore, che in merito dovrà votare) affinché, in nome della “studiosa giovinezza”, le valuti lui con attenzione e le giudichi in coscienza? Perché tu, che hai scritto libri bellissimi sulla coscienza, non ti appelli ad essa, al suo giudizio, e dai per scontato che l’eventuale diniego del Parlamento equivarrebbe alla perdita dell’onore, alla perdita di tutto? Perché non chiedi a D’Alema e al Pd di dimostrare in casi scomodi come questo quell’indipendenza di giudizio, quell’autonomia personale, che tu tanto ammiri e difendi nei tuoi scritti, e che là in particolare si dimostra, quando non cede alla pressione conformista dei “si dice”, dei “si fa così”, per puro spirito gregario, per timore delle incomprensioni, per paura delle conseguenze, per la pressione della piazza? Poi magari il Parlamento voterà sì, il Pd voterà sì, D’Alema approverà, e tu avrai perduto non l’onore, ma, forse, la possibilità di riconoscere quello altrui. A meno che tu non abbia già deciso di lasciarla al Fatto.