Alla naturale scadenza della legislatura non crediamo che Silvio Berlusconi abbia molte possibilità di arrivare. Non più di quante, attualmente, ne daremmo a Gheddafi. Fa però ugualmente impressione notare che nel 2013 saranno passati vent’anni esatti dal primo atto della sua “discesa in campo”: l’inattesa dichiarazione di sostegno a Gianfranco Fini, proprio lui, allora candidato sindaco a Roma, e proprio contro Francesco Rutelli, suo attuale compagno di schieramento. I due campioni della prima sfida bipolare del paese, attorno ai quali si costituirono i primi embrioni dei futuri centrosinistra e centrodestra, sono finiti entrambi, orfani dei rispettivi partiti di provenienza, nel terzo polo neocentrista guidato dall’Udc di Pier Ferdinando Casini, che dello schema bipartitico avrebbe dovuto essere la prima vittima. Duplice, e molto istruttiva, ironia della storia. Perfetta sintesi di un percorso certamente impervio, denso di avvenimenti e d’improvvisi cambi di fronte, ma alla fine dei conti perfettamente circolare. Al termine di questo ventennale gioco dell’oca, che il giro sia stato o no di vostro gradimento, siamo spiacenti di informarvi che si torna tutti alla casella di partenza.
In questi anni il giudizio su Berlusconi, sulle ragioni dei suoi successi e sulla natura del suo potere, ha diviso aspramente la sinistra, seminando nel suo campo il virus micidiale dell’autodelegittimazione. ll problema dell’opportunità e dell’utilità di una costante demonizzazione dell’avversario – della tendenza, in breve, a dipingere Berlusconi come un orco – è stato però brillantemente risolto, in questi ultimi mesi, da Berlusconi stesso, con l’immagine di sé che il presidente del Consiglio ha offerto al paese e al mondo intero. Uno spettacolo che non può essere più oggetto di valutazioni diverse e di discussione, tra persone serie. E che tra persone serie, infatti, non lo è più da tempo.
A cosa si deve dunque lo stallo in cui si trova la situazione politica italiana? Per quale ragione i grandi gruppi economici, la Confindustria e la grande stampa al seguito, ma anche le alte gerarchie della chiesa, nonostante occasionali prese di distanza, si mostrano così riluttanti a trarre le conseguenze ultime delle loro stesse dichiarazioni, e pronte piuttosto a ridimensionarne la portata e a smussarne il significato il giorno seguente? Per quale ragione oggi, specialmente in quei settori della società italiana in cui l’appoggio al governo è stato a suo tempo più esplicito, gli esponenti di primo piano di questi ambienti sembrano più impegnati a frenare le manifestazioni di sdegno che vengono dalla loro base che a indirizzarle verso uno sbocco conseguente, positivo e costruttivo? La ragione – ci ripetono tutti – è che non si vede, o non si vede ancora, un’alternativa.
Intendiamoci. In questo ritornello sulla mancanza di alternative al centrodestra c‘è molto di strumentale, e la sua continua intonazione è forse l’ultimo omaggio che una parte della classe dirigente italiana si sente in dovere di pagare a Berlusconi, per dir così, in memoria dei vecchi tempi, e nell’attesa, un po’ inquieta, dei nuovi. Quali che siano però le ragioni di questo attardarsi, resta il fatto che da un simile stallo nessuno sembra attualmente capace di uscire. Da questo punto di vista, l’argomento dei sostenitori del governo, la pretesa solidità della maggioranza parlamentare, e l’argomento dell’opposizione, il modo scandaloso in cui tale maggioranza è stata rimessa insieme, sono ugualmente inefficaci a spiegare la situazione attuale. Comunque la si giudichi, infatti, è evidente a tutti che in presenza di una reale alternativa tale maggioranza si scioglierebbe come neve al sole.
Cosa impedisce dunque il maturare di una simile alternativa, e di un’iniziativa politica conseguente, nel campo delle opposizioni? Noi pensiamo che a impedire il maturare di una concreta e realistica proposta di rinnovamento che ci consenta di uscire finalmente da questo ventennale gioco dell’oca sia proprio la pesante eredità di una stagione che dovrebbe essere alle nostre spalle, e invece ci si ripresenta sempre davanti, con la persistenza di schemi, riflessi condizionati e luoghi comuni ormai anacronistici. Per averne un esempio, basta ripensare al surreale dibattito che si è svolto dentro e intorno al Pd fino a poche settimane fa, prima cioè che l’elementare necessità di costruire un largo schieramento capace di battere il centrodestra s’imponesse definitivamente. C‘è oggi una sola persona di buon senso – sostenitori del centrodestra esclusi – che avrebbe il coraggio di predicare al Partito democratico la necessità di presentarsi da solo alle elezioni? Eppure gran parte dei luoghi comuni che hanno infestato il dibattito fino a ieri non erano altro che il naturale corollario di quella strategia, che puntava esplicitamente alla costruzione di un sistema sostanzialmente bipartitico e presidenzialista. Una linea considerata, e non a torto, come il definitivo compimento della transizione italiana, e cioè di quella lunga fase che sui giornali si usa chiamare pomposamente Seconda Repubblica e che noi preferiamo chiamare, più semplicemente, ventennio berlusconiano.
Di questo cupo tratto della nostra storia democratica, infatti, il berlusconismo non è un’escrecenza, una variante impazzita, una parentesi, ma il frutto più naturale, e al tempo stesso la rappresentazione più fedele e coerente. Questa è la ragione per cui si può dire che la crisi attuale non è una semplice crisi politica, ma una crisi di sistema. Dopo le elezioni del 2008, infatti, a dovere dichiarare fallimento non è soltanto il tentativo di portare a compimento, fino alle estreme conseguenze, la logica del sistema maggioritario e bipolare, con tutti i suoi corollari (leaderismo, presidenzialismo di fatto, partiti-coalizione ridotti a puri comitati elettorali del capo e di conseguenza destinati a entrare in crisi un minuto dopo le elezioni). A dovere dichiarare fallimento, dopo vent’anni di tentativi infruttuosi, è il sistema stesso.
Per chi da questo orecchio proprio non vuole sentirci, ricordiamo che circa un mese fa, e non per la prima volta, il governatore della Banca d’Italia ci ha spiegato che l’Italia “non cresce da quindici anni” (non da dieci, e nemmeno da trenta: da quindici giusti giusti). Che più o meno negli stessi giorni il presidente del Consiglio faceva la spola tra il congresso del Partito repubblicano e quello del Partito cristiano riformista (di cui abbiamo scoperto con angoscia, in quell’occasione, l’inaspettata esistenza). Che appena tre giorni fa il nostro capo del governo si trovava a cena con Domenico Scilipoti, per esaminare il programma in 14 punti proposto da “Iniziativa responsabile” alle altre forze della maggioranza.
Se aggiungiamo a questi scarni fatti il debito pubblico al 120 per cento, la condizione del mezzogiorno e lo stato dei conti della sanità in gran parte delle regioni italiane – vera cartina al tornasole delle reali potenzialità del federalismo in Italia – ci pare che il bilancio di questo ventennio possa essere tirato rapidamente, senza nemmeno bisogno di ricorrere ai molti ulteriori argomenti che pure le cronache giudiziarie e politiche ci offrirebbero generosamente.
Dinanzi a un simile bilancio, l’accusa di volere “tornare al passato”, e cioè all’instabilità dei governi, al debito pubblico incontrollabile, alla corruzione diffusa e alla moltiplicazione dei partiti, a questo punto, ci pare si mostri da sé per quello che realmente è: un non-senso, nella migliore delle ipotesi, o un argomento propagandistico, funzionale soltanto alla conservazione dell’esistente, nella peggiore. Questo ricatto che da vent’anni ci tiene tutti paralizzati è infatti il vero “inciucio” tra Berlusconi e parte cospicua dei suoi oppositori, la vera base condivisa del sistema che ha permesso a Berlusconi di guidare la politica italiana tanto a lungo, e ancora gli permette, nonostante l’evidente esaurimento della sua esperienza, di restare miracolosamente in piedi, come aggrappato a se stesso.
In compenso, le parole pronunciate sabato da Pier Ferdinando Casini all’iniziativa di Area democratica a Cortona, la consapevolezza da lui mostrata della necessità di una nuova fase, una fase di ricostruzione democratica per uscire finalmente dal berlusconismo, indicano che le condizioni per l’alternativa cominciano finalmente a maturare, e a imporsi anche ai più riottosi (tra i quali è senza dubbio da annoverare lo stesso Casini). L’alternativa, oggi come sessant’anni fa, è del resto sempre la stessa: ricostruzione o restaurazione. Sapendo però che una restaurazione del berlusconismo senza Berlusconi, dunque senza le sue enormi contraddizioni, e senza le conseguenti reazioni di rigetto che quelle contraddizioni suscitano ancora in una parte almeno della società italiana, sarebbe molto, ma molto più insidiosa.