La festa è finita. La vicenda politica di Silvio Berlusconi è conclusa. Non è questa né un’opinione né una previsione, ma una banale constatazione, un semplice dato di fatto. Comunque si giudichi la lunga e contraddittoria parabola del nostro presidente del Consiglio, non si può negare l’evidenza. Se ne può discutere, naturalmente, come si può discutere di tutto. E cioè per sport, per gioco o per costrizione, magari anche per un malinteso senso del dovere, o ancora per calcolo, per sincera gratitudine personale o per insincera solidarietà di partito. Ma non se ne può discutere seriamente. Non senza recare offesa alla propria e altrui intelligenza, perlomeno. Non senza recare offesa, soprattutto, a quel minimo, comune senso del pudore che in questi giorni è stato oltraggiato assai più dai surreali dibattiti andati in scena sui giornali, in televisione, alla radio e su internet, che non dalle tristissime, ormai celebri e indubbiamente deprecabili notti di Arcore.
La vicenda politica di Silvio Berlusconi è arrivata all’epilogo, e non è certo un lieto fine: né per lui, né per noi. Il colpo di grazia glielo ha dato la crudele ironia della storia e della politica, portando proprio adesso in primo piano, sui giornali di tutto il mondo, la crisi e infine la caduta di Hosni Mubarak. L’irrefrenabile proliferazione di battute a doppio senso suggerite dalle vicende egiziane dicono meglio di ogni inchiesta – giudiziaria, giornalistica, demoscopica – l’unica cosa che c‘è da dire: che è finita. Non c‘è nessun bisogno di aspettare video imbarazzanti e scatti rubati: il re è già nudo. Un leader politico, specialmente in Italia, può affrontare e superare indenne le grida di rabbia e persino le risate di scherno dei suoi avversari, non i mezzi sorrisi imbarazzati e i colpi di gomito di chi gli sta intorno.
La vicenda politica di Silvio Berlusconi è talmente finita che ormai cominciano ad accorgersene persino i sondaggi. La discesa sarà rapida, ma non indolore. Nei giorni scorsi, mentre il presidente del Consiglio pensava a organizzare l’ultima, disperata resistenza, Giulio Tremonti si faceva riprendere prima in treno, in viaggio verso Sud, e poi in pullman, tra i cantieri della Salerno-Reggio Calabria. Il confronto è inevitabile, il messaggio è chiaro: chi si occupa solo di se stesso e dei propri imbarazzanti problemi personali, chi dei problemi del paese, e di cose concrete, come treni e strade. Incurante di tutto, Silvio Berlusconi non esitava nelle stesse ore ad annunciare in conferenza stampa la sua intenzione di fare “causa allo stato”, da vittima di quella che considera una persecuzione giudiziaria. Come capo del governo, in una simile ipotesi, dovrebbe dunque rappresentare al tempo stesso l’imputato e la parte lesa: nessun altro politico occidentale mostrerebbe altrettanta nonchalance nell’esporre in modo così evidente e così fortemente simbolico il conflitto tra il suo interesse personale e l’interesse dello stato, fino al punto da minacciare pubblicamente di portare lo stato in tribunale.
La richiesta di rompere con l’Udc in tutte le regioni, arrivata ventiquattro ore dopo, sarà certamente accantonata al più presto, ma è il segno che l’interesse personale di Berlusconi è ormai in aperto conflitto non solo con l’interesse del paese, ma con gli interessi del suo stesso partito e della sua stessa coalizione. E il misto di freddezza e indifferenza con cui i presidenti di regione hanno accolto quelle parole è solo la penultima dimostrazione della nostra tesi. L’ultima è l’editoriale del direttore di Avvenire, proprio nel giorno in cui il Foglio di Giuliano Ferrara organizza a Milano una difficile controffensiva. “Se fossi donna domani sarei in piazza”, scrive il direttore del giornale dei vescovi. Fine della partita.
La vicenda politica di Silvio Berlusconi è chiusa, ma il problema della sua enorme influenza sulla politica resterà aperto ancora a lungo. Attraverso il partito che ha fondato e gli uomini che ha promosso, attraverso televisioni, giornali e settimanali, attraverso le gigantesche risorse economiche di cui dispone, Berlusconi continuerà a esercitare un ruolo nella vita politica italiana, e un ruolo non secondario. Con la sua uscita di scena svaniscono i falsi problemi (l’idea di una legge sul conflitto d’interessi che potesse in qualche modo impedirgli di presentarsi alle elezioni), ma restano i problemi veri: la debolezza e la permeabilità delle istituzioni democratiche dinanzi al sistema finanziario, che controlla i mezzi di comunicazione, attraverso i quali non si accontenta di orientare le inchieste della magistratura (premiando o punendo i pubblici ministeri con la notorietà o con il silenzio, con le campagne di stampa a sostegno o contro le loro tesi), ma pretende di dettare la linea ai partiti e di sceglierne persino i leader. Sono problemi che in una certa misura riguardano tutte le democrazie occidentali, ma che in Italia quella “misura” hanno superato da tempo. Sarà meglio cominciare a pensarci sin d’ora, per non ripetere l’errore dei primi anni Novanta, quando la sinistra continuò ad accanirsi su vecchi avversari ormai al tappeto, e così nemmeno si accorse del nuovo che stava arrivando alle sue spalle (e arrivava di gran carriera).