Può darsi che le battaglie sindacali di Pomigliano e di Mirafiori sfocino presto o tardi in una deriva estremista. Può darsi che il radicalismo fine a se stesso abbia la meglio sulle buone ragioni di merito dei contestatori, tanto nella Fiom quanto in un’area di sinistra che oggi è fuori dal Parlamento, ma potenzialmente è ben più vasta di quel che si crede. Può darsi che la facile e scivolosa retorica dei diritti prenda la mano ai suoi stessi agitatori. Insomma, può darsi che ce ne pentiremo. Ma noi, in questo momento, stiamo con la Fiom.
Non è una questione ideologica. Al contrario. Nel momento in cui il merito sindacale della contesa sfumasse dietro la tentazione della strumentalizzazione politica, nel momento in cui i dirigenti della Fiom pensassero di mettersi a capo dei movimenti sociali e delle sparse sigle dell’area radicale e antagonista, nel momento in cui questo processo culminasse in una lotta aperta tra la Fiom e gli stessi vertici della Cgil, non esiteremmo a schierarci contro la Fiom. Ma quel momento non è adesso. Adesso è il momento di una scelta politica chiara: o con la Fiat, o con la Fiom.
Porre la questione in questi termini potrà sembrare provocatorio, ma è esattamente in questi termini che stanno le cose. Come ha detto infatti Stefano Fassina, qui non si tratta di Sergio Marchionne, il problema non sono le idee o il carattere di un amministratore delegato, perché la Fiat non è una public company. Il problema è la Fiat, un’azienda controllata da una grande famiglia italiana, almeno finora. La storia e le fortune della famiglia Agnelli, però, sono inestricabilmente legate alle peculiari vicende dello sviluppo industriale dell’Italia. Per fare un solo esempio, il nostro è l’unico tra i paesi economicamente avanzati che abbia ormai una sola casa automobilistica nazionale. Un’eccezione di cui sono note le origini. La Fiat ne ha tratto senza dubbio molti vantaggi. Gli italiani un po’ meno.
Non stupisce che Silvio Berlusconi e il suo governo evitino scrupolosamente di dire una parola in merito. Tanto meno stupisce che tutto il Pdl esalti la “rivoluzione” incarnata da Sergio Marchionne, a cominciare dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, ultima diva dell’opinione pubblica liberale e meritocratica. Non può stupire che gli applausi vengano da loro, che del “modello americano” rilanciato dalla Fiat sono, nel campo della politica, i principali beneficiari, per non dire i miracolati. Stupisce, invece, la debolissima presa di posizione del Partito democratico e di tutti i suoi principali dirigenti: va bene l’accordo, ma non l’esclusione della Fiom prevista dall’accordo; ben vengano gli investimenti della Fiat, ma non le condizioni poste dalla stessa Fiat per effettuarli. Un balletto che ricorda i momenti più cupi del ma-anchismo veltroniano. E su un terreno che dovrebbe essere al centro dell’iniziativa politica e della stessa identità del Pd.
Ma ormai la Fiat è una multinazionale come un’altra, si dice, e ha tutto il diritto di investire dove lo ritiene più conveniente, alle condizioni che meglio crede. E se quelle condizioni non ci sono, per l’opposizione dei sindacati o di chicchessia, ha tutto il diritto di andarsene, checché ne pensi il governo, il parlamento o il Pd. Così si dice. E così, di primo acchito, il discorso sembra non fare una piega.
Qui però bisogna fermarsi un attimo a ragionare, perché si dà il caso che a Torino si sia da poco concluso, con la piena assoluzione di tutti gli imputati, il processo sull’equity swap Ifil-Exor. Una brillante operazione con cui nel 2005 gli Agnelli hanno di fatto mantenuto il controllo della Fiat, attraverso un giochetto di acquisti antedatati e vendite con l’elastico piuttosto disinvolto, e accompagnato da ancor più disinvolte comunicazioni alla Consob, tanto da fare ipotizzare alla magistratura diversi reati finanziari. Un’operazione portata a termine proprio negli stessi mesi in cui le pagine dei giornali controllati dalla Fiat (e non solo) erano piene delle accuse, per reati analoghi, a carico dei cosiddetti “furbetti” e dell’Unipol.
Ebbene, l’argomento principale a sostegno del comportamento della Fiat, che abbiamo letto sui suoi stessi giornali, consisteva in questo: che i suoi uomini avrebbero fatto quel che han fatto per un fine superiore che tutto giustificava, e cioè, udite udite, la difesa della “italianità” della Fiat. Lasciamo andare che si trattasse degli stessi commentatori che ancora nel 2005 – siamo sempre lì – guidavano il linciaggio del governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, per la sua “medievale” concezione della “italianità” delle banche (e la sua ferma intenzione di difenderla, sia pure, ne conveniamo, in modi assai discutibili). Diciamo pure che è acqua passata. Ma sentirci dire adesso che la Fiat è una multinazionale come le altre, e dunque ha il diritto di andarsene dove preferisce, a questo punto ci pare obiettivamente un po’ troppo.