Non è un caso che in questi vent’anni, dal crollo della Prima Repubblica a oggi, il “modello americano” sia divenuto il vangelo delle nostre classi dirigenti in ogni campo: politico, economico, istituzionale. Il caso irlandese, per esempio, è soltanto l’ultima conferma del parossismo ideologico che ha caratterizzato il nostro dibattito pubblico sul piano della politica economica: quanti autorevoli editorialisti e professori di liberismo ci hanno portato l’Irlanda a esempio, prima della crisi. Una crisi provocata proprio da quel modello anglosassone che “la tigre celtica” aveva seguito così bene. E quanti di quegli stessi commentatori hanno avuto il coraggio di insistere, anche dopo che lo scolaro modello era finito tra i reietti Pigs (i paesi a rischio crack: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), indicandolo come il paese che più e meglio di ogni altro aveva imboccato una sicura via d’uscita dalle difficoltà, perseverando sulla linea iperliberista come se niente fosse. Abbiamo visto.
Non per nulla, questi buoni consigli sono venuti sostanzialmente dagli stessi ambienti da cui proviene oggi, sul piano politico-istituzionale, l’agguerrita difesa del bipolarismo, e cioè di quel meccanismo che da anni tiene congelato il nostro sistema politico, impedendo un naturale processo di scomposizione e ricomposizione dei diversi blocchi sociali. Impedendo a un sistema politico ormai in cancrena la stessa possibilità del movimento. In queste condizioni, anche un Berlusconi ultracentenario, imbalsamato e rinchiuso in una sorta di festoso mausoleo itinerante, tra villa Certosa e casa Mubarak, basta e avanza a tenere in scacco l’intero paese per i secoli dei secoli.
Non è un caso che tra le poche condizioni irrinunciabili di qualsiasi trattativa Berlusconi ponga sempre la “difesa del bipolarismo”, e cioè del principio secondo cui la maggioranza dovrebbe essere “scelta dagli elettori”. Principio in contrasto irriducibile con le fondamenta stesse della nostra Costituzione, che prevede tra l’altro che i parlamentari siano eletti “senza vincolo di mandato”. Principio considerato ciononostante irrinunciabile da vari autorevoli esponenti del centrosinistra e da tanti commentatori progressisti. Gli stessi, peraltro, che non passano giorno senza denunciare gli inaccettabili attacchi alla Costituzione del nostro presidente del Consiglio.
Introdurre minimi elementi di pluralismo in un sistema simile è impresa ardua. La “difesa del bipolarismo”, infatti, si traduce anzitutto in questo: nella militarizzazione e nel congelamento dei diversi blocchi. Da questo punto di vista, la “nuova stagione” inaugurata da Walter Veltroni con la mano tesa a Silvio Berlusconi per la costruzione di un sistema “tendenzialmente bipartitico”, a ben vedere, sta alla politica italiana come la distensione est-ovest alla vita politica, sociale e culturale del blocco sovietico. Il risultato, in breve, è il breznevismo.
Per uscire dal pantano berlusconiano, ma anche dal breznevismo veltroniano e post-veltroniano, bisogna dunque ripartire da qui. Le scorciatoie sono finite. Il problema della politica italiana non è affatto l’impossibilità di fare, come si continua a ripetere da tante parti (e anche questo è un elemento non secondario del pensiero dominante). Il problema, al contrario, è la difficoltà di pensare. Ed è un problema che non riguarda solo la politica. Ora come non mai è necessario tentare di introdurre nel nostro dibattito pubblico punti di vista, problemi e studi fino a oggi sistematicamente ignorati, come quelli di Torben Iversen citati qui da Massimo D’Antoni, a proposito di “Leggi elettorali e modelli di capitalismo” (articolo ripubblicato sul Riformista e qui seguito da una vibrante replica di Stefano Ceccanti in difesa del modello americano, a dimostrazione dell’assunto). Ed è davvero singolare che la più articolata e documentata contestazione della superiorità, ma soprattutto dell’universalità del modello politico-economico anglosassone, in Italia identificato senz’altro con la modernità, la si debba leggere in inglese, perché in Italia nessuno ne parla. Un segno della vitalità, del pluralismo e delle inesauribili risorse del sistema americano, senza dubbio. E anche una prova ulteriore della differenza che passa tra sistemi modello e sistemi scopiazzati.