A leggere le prime pagine di tutti i maggiori quotidiani europei sembra di assistere al remake di un brutto film. Questa volta, al posto della Grecia, c‘è l’Irlanda, che recita il ruolo dell’assassino di una Unione europea sempre al di sotto delle necessità e degli eventi. La crisi irlandese è però molto diversa dalla crisi greca, che aveva la sua origine in una serie di trucchi contabili. La “Tigre celtica”, come era chiamata dagli entusiasti pifferai di casa nostra, è stata a lungo indicata come un esempio da seguire per i paesi della Vecchia Europa, Germania e Italia in testa. Solo tre anni fa l’Irlanda aveva il secondo più alto reddito pro-capite fra tutti i 27 paesi membri della Ue, mostrava un’impressionante capacità di creare posti di lavoro e si presentava come lo scolaro più disciplinato di tutto il continente anche in materia di conti pubblici. Poi, con la crisi finanziaria, tutto è cambiato. Dal vaso di Pandora è saltato fuori, fra l’altro, un sistema finanziario eccessivamente disinvolto nel concedere crediti, una bolla speculativa immobiliare seconda solamente a quella della Gran Bretagna e un indebitamento privato senza eguali in tutta l’Unione europea. Crisi irlandese e crisi greca hanno però una caratteristica comune: nonostante siano paesi con stock di debito relativamente modesti rispetto a quello dell’intera euro-zona, attorno a loro si sono innescate una serie di turbolenze che stanno mettendo in ginocchio l’intero continente.
La spiegazione più semplice di questo preoccupante fenomeno sta nella stessa struttura istituzionale della Ue, la cui stabilità complessiva viene delegata al buon comportamento di ciascun paese. L’unione monetaria è per sua natura un’unione fra solidali: i titoli pubblici di ciascun paese membro sono denominati in euro e possono essere acquistati con facilità e senza rischi di cambio da tutti gli altri. Eppure non è stato predisposto alcun meccanismo capace di internalizzare il problema del debito di uno stato membro. Non esiste cioè nessuna possibilità di organizzare trasferimenti da paesi sani a paesi che presentano problemi o squilibri. Anzi, questa elementare forma di solidarietà non solo non è prevista dai trattati europei, ma è addirittura vietata. Una incongruenza che è stata già denunciata da alcuni economisti vent’anni fa, al momento dell’approvazione del trattato di Maastricht, e che rischia di rimanere senza risposta anche nel progetto di modifica dell’assetto istituzionale europeo elaborato congiuntamente dalla Commissione Ue e dalla task force guidata da Herman Van Rompuy nelle ultime settimane. Resta in piedi la sola European financial stability facility (Efsf), un meccanismo intergovernativo temporaneo di sostegno ai paesi in difficoltà che però non presenta né i fondamenti giuridici né quei caratteri di automaticità che potrebbero renderlo credibile agli occhi degli operatori finanziari. Ma a rendere potenzialmente esplosiva la situazione è soprattutto il comportamento degli organismi della Ue – Commissione in testa – che sembrano aver confuso il concetto di “policy” con quello di “police”. Già due anni fa, seguendo un’applicazione burocratica dei trattati, è stata posta sul banco degli imputati quasi tutta la zona euro, accusata di avere un deficit eccessivo proprio mentre esplodeva la crisi finanziaria, con il risultato di esporre i paesi in maggiori difficoltà agli attacchi degli speculatori.
Più in generale, è la logica con cui procedono le istituzioni comunitarie a lasciare quantomeno perplessi. Se un edificio brucia, buon senso vuole che si pensi prima a spegnere l’incendio e poi a cercare il colpevole. Nella scorsa primavera è stato fatto esattamente il contrario: mentre la Grecia affondava sotto i colpi degli speculatori, i governi nazionali e gli organismi comunitari passavano settimane a discutere di come punire il governo greco per la scarsa disciplina fiscale degli anni precedenti. E anche dopo aver imposto un duro percorso di rientro si è sviluppato un incredibile dibattito sui rischi di azzardo morale da parte di altri paesi, come se farsi commissariare dalle istituzioni comunitarie non fosse già di per sé un disincentivo sufficiente al lassismo fiscale.
C’è infine un problema più strettamente politico legato alla governance economica europea. Il Trattato di Maastricht prima e il Patto di Stabilità poi furono partoriti in un periodo in cui la sfiducia nella politica, alimentata dalle discusse teorie della New Political Economics, aveva alimentato l’idea che l’interesse pubblico – univocamente rappresentato dall’efficienza economica – dovesse essere protetto dai difetti dei meccanismi democratici. E che questo obiettivo dovesse essere perseguito, da un lato, sottoponendo ogni azione pubblica al “giudizio” dei mercati, unici depositari dell’efficienza economica, e dall’altro limitando i poteri dei governi in campo economico mediante regole costituzionali. La scrittura di tali regole, ovviamente, doveva essere affidata a un organismo super partes, composto di economisti e giuristi, autentici interpreti del “bene” economico.
Anche volendo tralasciare tutti i dubbi teorici e pratici che suscita tale impostazione ideologica, restava del tutto irrisolto (e resta ancora oggi) un problema fondamentale: tassare e spendere sono scelte che competono ai governi e ai parlamenti nazionali. Il costo politico di un taglio della spesa pubblica o di un aumento del prelievo fiscale ricade pertanto sui singoli stati. I vincoli europei influiscono pesantemente sulle decisioni politiche dei governi nazionali, senza tuttavia pagarne i relativi costi politici. Buona regola democratica vorrebbe invece che si collegassero le scelte politiche alle loro conseguenze. E questo non per una banale questione di principio, ma per una ragione operativa. Al primo serio banco di prova il Patto di stabilità e crescita non ha funzionato ed è stato abilmente aggirato. Nel 2003 Germania e Francia presentarono dei budget che non rispettavano i parametri di Maastricht. Seguì un lungo braccio di ferro fra Commissione europea e governi nazionali, che fu vinto – senza sorprese – dai governi nazionali, e che portò subito dopo a una riforma dei trattati. Dopotutto, fra un gruppo di burocrati-tecnocrati e l’insieme dei cittadini è abbastanza naturale – ed è un bene – che i governi democratici rispondano a questi ultimi.
Forse, allora, il vero problema dell’Unione monetaria sta proprio nei suoi trattati istitutivi. Di sicuro, rendere più stringente il meccanismo che non ha funzionato fin qui, come sembra vogliano fare i governi europei, è un’evidente assurdità. E non si capisce come possa funzionare in futuro.