Un manifesto di “persone perbene e intellettualmente oneste”, dice il filosofo Giacomo Marramao. Cioè, non stiamo troppo a pensarci, di destra. Un manifesto firmato da persone che in futuro, quando una nuova fase politica sarà aperta nel paese (e qualche contributo a chiudere quella presente pare che effettivamente Gianfranco Fini voglia darlo), potranno anche trovarsi in disaccordo, uno con Sinistra e libertà e l’altro con Futuro e libertà, ma per il momento partono almeno da “una comune base di valori”. Un incontro, checché ne dicano i firmatari del finiano Manifesto di ottobre, provenienti da sponde politiche distanti e addirittura opposte, che tuttavia non sembra paragonabile a quello tra democristiani e comunisti nell’Assemblea costituente, se non altro perché quelli in comune avevano una storia, una guerra, la Resistenza, qualcosa di più che non un metafisico cielo di valori. Quei valori, difatti, se ne stanno per conto loro, appesi in alto come i caciocavalli che don Benedetto Croce usava paragonare alle idee platoniche, per spiegarsi con la cuoca, sicché l’impressione rimane la stessa: il Manifesto di ottobre è cosa meritoria quanto si vuole ma di destra. Anche se Marramao vi ha aderito in spirito bipartisan. E anche se, con ancora maggiore generosità, Franco Cardini sostiene che è “polipartisan” (“facciamo vedere che abbondiamo”, avrebbe detto Totò), trovandosi nella buona compagnia di personalità vicine alla Fondazione Farefuturo, come Flavia Perina e Alessandro Campi, ma anche di esponenti politici del Pd (Gentiloni, Sarubbi, Concia); di irregolari come Giulio Giorello e Giuliano Compagno, ma anche di intellettuali tradizionalmente classificati “di sinistra” come Maurizio Calvesi, Franco La Cecla, Nadia Fusini, Luca Ronconi.
Ad ogni modo: guardiamoli pure, questi valori. C‘è l’etica pubblica, la legalità, il patriottismo repubblicano. C‘è il bene comune ma ci sono anche i beni comuni: il primo risale a Tommaso, i secondi arrivano fino a Toni Negri. C‘è la libertà (va da sé) e pure la partecipazione. Non c‘è il conflitto ma c‘è l’agonismo. C‘è la virtù civica che di fianco ha subito il merito. C‘è un sacco di passione, di coraggio e – anche questo va da sé – di futuro. C‘è pure un passaggio su outsider, invisibili e senza parte. Ma siccome l’espressione pencola decisamente a sinistra, viene subito corretta con la rassicurazione che non si tratta solo di poveri, disoccupati o stranieri. E così, con la scusa di allargare ancor più la cerchia degli esclusi, in realtà si annacqua l’identità di coloro i quali lo sono effettivamente.
Ma da cosa poi sarebbero esclusi? Dal godimento e dall’esercizio di diritti politici e civili. Ecco quel che succede: ti dicono che il vocabolario della politica è ormai logoro, che ci vuole un pensiero nuovo, «critico e creativo», ma poi qualcosa del vecchio lessico riprendono, e qualcos’altro invece dimenticano. E per farla breve: il Manifesto di ottobre non sa nulla di diritti sociali.
I firmatari, dunque, hanno ragione: non è per nulla vero che il Manifesto può andar bene a tutti, come ha sostenuto, sbrigativamente, Pierluigi Battista sul Corriere, anche se fa un certo effetto sentire Fini citare a Perugia la stessa frase di Saint-Exupery che usò Walter Veltroni al Lingotto. Cosa dice però quella frase tanto evocativa? Che per costruire una nave ci vuole, ancor prima che la legna e gli attrezzi, “la nostalgia del mare lontano e sconfinato”. Traduciamo in termini di caciocavalli: tra quelli che citano l’eroico aviatore francese, amato da grandi e piccini, così come tra i firmatari del Manifesto, nessuno sembra più nutrire il sia pur vago sospetto che per fare i caciocavalli (i valori) ci vogliono mucche e mungitori e macchine: un intero processo produttivo. Oppure i firmatari pensano davvero che i caciocavalli piovano dal cielo? E che dire del mare lontano? Non è forse vero il contrario di quel che pensava l’autore del Picccolo Principe? E cioè: date anzitutto all’uomo una nave e vedrete che presto o tardi troverà un mare lontano da solcare.
È, dico, il contrario; ma più precisamente bisognerebbe dire che le cose stanno al contrario per quell’altro pezzo della vicenda intellettuale moderna che bene o male, con tutti gli scivolamenti storici e semantici del caso, chiamiamo ancora sinistra, e di cui il Manifesto di ottobre organizza sapientemente l’occultamento. Anche se Marramao non pare voglia accorgersene.
Che poi questo occultamento si presenti come un andar oltre le categorie della politica novecentesca non cambia la faccenda. Si può, peraltro, persino convenire che destra e sinistra non vogliano più dir nulla (contro i fatti è inutile sbatter la testa, ed è un fatto che per un bel po’ di persone, compresi taluni intellettuali e qualche ex-segretario di partito, questa è la situazione); resta però la necessità di capire a chi giovi, chi tragga vantaggio da un simile impallidimento delle distinzioni politiche. Ed è sufficiente sapere che non tutti se ne avvantaggiano in maniera eguale, per capire che il Manifesto delle persone perbene, mancando di notarlo, prende un segno politico preciso.
Dopodiché, va benissimo quanto sostiene Monica Centanni, tra le più intelligenti promotrici del Manifesto: che bisogna alzare la voce in spirito di verità, trovare parole efficaci, riabilitare lo spazio pubblico, coltivare nuovamente insieme impegno politico e impegno intellettuale. Ma che lo si possa e lo si debba fare a destra come a sinistra, non rende la destra meno destra, e la sinistra meno sinistra.