Buttare a mare o rottamare il Pd? Non sorprende che il tema sia sollevato da chi fonda il proprio percorso politico e le proprie prospettive sulla destrutturazione dei partiti e sulla definitiva affermazione, anche a sinistra, del paradigma della personalizzazione della politica e del populismo mediatico. Sorprende invece che a porsi la domanda sia chi ha fieramente e coerentemente avversato questo esito, quando è sembrato prevalere nei primi due anni di vita del Pd, e che poi ha individuato nell’elezione di Pier Luigi Bersani la possibilità di una svolta. Ancora più sorprendente è che la risposta data non sia affermativa solo perché si ammette che, una volta chiuso il Pd, non si saprebbe dove andare.
Lo stupore non deriva certo dal venir meno di una presunta ortodossia di giudizio, anche perché so bene che qualsiasi ortodossia è quanto di più lontano possa esserci dallo spirito di Left Wing (e questo va considerato un bene prezioso, di questi tempi). Il punto di dissenso è un altro e riguarda piuttosto le motivazioni che vengono portate a sostegno di un giudizio critico sulla segreteria Bersani.
Su un punto Left Wing coglie una questione reale, da approfondire: la posizione del Pd rispetto alla vicenda Fiat e all’evolversi delle posizioni di Sergio Marchionne. Se fino al referendum di Pomigliano il Pd è riuscito ad assestarsi su una linea sofferta ma comprensibile (sì all’accordo e all’esito del referendum per salvare l’industria automobilistica italiana e per spingere la Fiat ad attuare il suo piano di investimenti in Italia, no secco alla trasformazione dell’accordo di Pomigliano in un modello per altre realtà industriali), le successive prese di posizione di Marchionne (fino all’incredibile performance nel salotto televisivo di Fabio Fazio) non hanno trovato una risposta altrettanto chiara, in grado di mettere la Fiat di fronte alle sue responsabilità, di difendere la dignità dei lavoratori (anzitutto di quelli che hanno votato sì all’accordo) e di ricordare che compito di chi guadagna 457 volte il salario degli operai non è fare l’opinionista da strapazzo, ma dimostrare di saper fare il proprio lavoro mantenendo l’impegno di presentare un piano industriale credibile.
Per il resto, le motivazioni della critica a Bersani manifestano, a mio giudizio, un fenomeno abbastanza stupefacente: proprio quelli che erano stati tra i critici più sferzanti ed efficaci, durante la segreteria Veltroni, della mediatizzazione integrale della politica e della sua dissoluzione in un susseguirsi di dichiarazioni e uscite volte a inseguire i temi e i ritmi imposti dal circuito mediatico, finiscono oggi per recepire questo schema di interpretazione della realtà, fino a restarne prigionieri. Lo dimostra il fatto che gli elementi centrali della critica (linea difensiva, preoccupazione solo per gli equilibri interni, un dibattito slegato dal merito delle posizioni e segnato solo dal tatticismo, subalternità a Di Pietro, tendenza a impostare l’opposizione solo sulla questione morale e non sugli argomenti che interessano agli italiani) sono esattamente gli stessi che si possono leggere quotidianamente sulla grande stampa italiana. Quella grande stampa che, pur con le sue differenze interne, mantiene due punti di riferimento costanti: in primo luogo, continuare a imporre la propria modalità di rappresentazione della politica (condizione essenziale perché quest’ultima resti in una condizione di debolezza e subalternità culturale); in secondo luogo, impedire che con la crisi del berlusconismo il sistema politico italiano possa trovare un nuovo punto di equilibrio imperniato sul Pd, che, con tutti i suoi difetti, rimane pur sempre una forza reale e radicata nel paese, più difficile da condizionare rispetto ad altri soggetti.
La rappresentazione mediatica del dibattito interno del Pd, che l’editoriale di Left Wing sostanzialmente recepisce, è funzionale a questi obiettivi, distorcendo alcuni essenziali dati della realtà. L’allargamento della maggioranza congressuale di Bersani non viene perciò rappresentato, come sarebbe normale, come un rafforzamento del segretario, ma come l’inizio della sua destabilizzazione, sebbene sia l’area degli oppositori interni a essersi spaccata e dimezzata. Si pensi poi ai cardini della proposta politica del segretario: superamento dell’attuale forma del bipolarismo, priorità accordata alla costruzione di un’alleanza costituzionale per affrontare l’emergenza democratica e sociale, progetto del nuovo Ulivo come nucleo centrale di questa alleanza, archiviazione delle suggestioni liberiste del discorso del Lingotto e dell’ultimo programma elettorale, primato dei temi del lavoro e delle redistribuzione, concepiti quali condizioni, non effetti, della crescita economica. Nella rappresentazione mediatica scompare il fatto che su questo asse politico ci sia oggi nel partito un consenso molto più ampio e convinto rispetto a un anno fa (e che il principale antagonista di Bersani nella corsa alla segreteria, Franceschini, sia oggi colui che nella maniera più netta sostiene il tema della tutela dell’impianto parlamentare e costituzionale, da anteporre all’affermazione ideologica del bipolarismo e della purezza delle alleanze). Si afferma invece la caricatura di un Bersani incapace di decidere e prigioniero dei veti interni, che, nell’editoriale di Left Wing, diventa addirittura un segretario finito in minoranza sulla linea politica.
Se una tale tesi conquista anche chi certo non è mosso da ostilità o pregiudizio, allora forse bisogna davvero interrogarsi sulla forza pervasiva di un certo paradigma di rappresentazione e interpretazione della politica, affermatosi nell’epoca dei partiti leggeri e del primato della comunicazione. Un paradigma che porta a convincersi che la politica consista nel dire di volta in volta la cosa più netta, giusta e avanzata, piuttosto che nel fare ciò che può gradualmente spingere o accompagnare il corso delle cose verso l’esito desiderato.