La Seconda Repubblica può essere giudicata da diversi punti di vista, ma non c’è dubbio che il tentativo di innescare una dinamica competitiva attraverso l’introduzione di una legge elettorale maggioritaria rappresenti un elemento essenziale del progetto che ne sta alla base. Un progetto che ha trovato realizzazione prima nei referendum contro il proporzionale, quindi nella pratica dei principali soggetti politici, per culminare nell’interpretazione bipartitica della vocazione maggioritaria del 2008. Nelle intenzioni, la competizione tra due forze politiche ben identificabili avrebbe dovuto restituire potere di scelta ai cittadini, contendibilità delle posizioni politiche e quindi responsabilizzazione dei governi. Corollario più o meno dichiarato di questo progetto la marginalizzazione delle forze estreme a favore di una convergenza al centro, là dove risiede l’elettore mediano. Sua parente stretta l’idea di una politica ormai necessariamente post-ideologica, adatta a quella condizione di “fine della storia” dichiarata dopo la caduta dei muri, in cui la distinzione tra destra e sinistra è sfumata quando non addirittura negata e il conflitto viene risolto al centro, dove è possibile trovare il consenso sul modo tecnicamente corretto di risolvere i problemi.
Ma se nei primi anni 90 poteva risultare convincente l’idea che da operazioni di ingegneria istituzionale orientate all’adozione della formula maggioritaria derivassero vantaggi attesi (in termini di minore frammentazione e particolarismo, semplificazione dell’offerta, stabilità dei governi) superiori ai costi, a quasi vent’anni di distanza il bilancio appare decisamente meno roseo. Il maggioritario, nelle diverse forme sperimentate, non ha mantenuto le sue promesse: frammentazione, trasformismo, instabilità, difficoltà di attuare progetti ambiziosi di riforma hanno continuato ad affliggere il nostro sistema politico. Ciò che colpisce è in effetti la capacità del sistema politico italiano di riprodurre i suoi storici difetti indipendentemente dalla regola elettorale adottata.
Una possibile risposta è che la transizione non è stata compiuta fino in fondo, che il nostro sistema è solo imperfettamente maggioritario. Da qui ad esempio iniziative referendarie come quella naufragata nel 2009, tesa a fare del “Porcellum” un “super-Porcellum” con premio di maggioranza non alla coalizione ma addirittura alla lista di maggioranza relativa. Ma questa della transizione imperfetta è una risposta che convince sempre meno, specie in una fase in cui assistiamo al prematuro tramonto di un governo che sembrava poter contare al suo insediamento sulla maggioranza più solida e coesa della storia del paese.
È legittimo sospettare che del progetto descritto sia sbagliata la premessa; cioè l’idea che la geometria parlamentare, espressa dalla legge elettorale, sia una variabile “esogena” e indipendente rispetto a caratteristiche più fondamentali del contesto sociale ed economico di un paese. L’approccio ingegneristico alla legge elettorale sembra in effetti soffrire dello stesso difetto che è stato a lungo rimproverato a molta politica economica: quello di proporre ricette che vogliono essere buone per tutti i luoghi e tutti i tempi a prescindere dal contesto.
All’approccio descritto è possibile contrapporre la tesi recentemente avanzata da un gruppo di politologi, tra cui spicca Torben Iversen dell’Università di Harvard, che inquadra il tema della formula elettorale in relazione al sistema complessivo di istituzioni economiche, in breve alla “varietà di capitalismo” cui appartiene un certo paese.
In primo luogo, la scelta del sistema elettorale non sembra essere neutrale rispetto agli esiti. Un dato empirico che colpisce è che nei sistemi maggioritari tendono a prevalere le coalizioni di centro-destra, mentre quelle di centro-sinistra governano più di frequente nei sistemi con regola proporzionale: prendendo in considerazione 17 economie avanzate nel periodo 1945-1998, la destra ha governato per il 75% del tempo nei sistemi maggioritari, e solo il 26% del tempo in quelli proporzionali. La spiegazione avanzata può essere così riassunta: considerando quale aspetto centrale della politica il conflitto redistributivo (per cui sinistra è associata a maggiore redistribuzione), l’elettore di centro tende a sostenere coalizioni di centro-sinistra se può farlo attraverso un “suo” partito in grado di contrattare le politiche con il partito di sinistra da una posizione di forza, così come avviene in un sistema proporzionale. Se invece il nostro elettore centrista è chiamato a scegliere, nell’ambito di un sistema maggioritario, tra due candidati/partiti uno di centro-destra e uno di centro-sinistra, con il rischio che quest’ultimo sia alla fine condizionato da forze che il nostro elettore considera troppo estreme (troppo propense a redistribuire), preferirà ripiegare sulla coalizione di centro-destra, meno rischiosa dal suo punto di vista, in quanto meno propensa a redistribuire.
Allargando la prospettiva, possiamo dire che la legge elettorale è una delle dimensioni in cui si sostanzia la modalità di protezione degli investimenti individuali che caratterizza un certo tipo di capitalismo. Semplificando, possiamo individuare due principali sottospecie della specie capitalismo, da una parte le economie liberali di mercato e dall’altra le economie di mercato coordinate. Al primo gruppo apparterrebbero le economie anglosassoni, al secondo grosso modo quelle del Nord e del Centro Europa. Non c‘è qui lo spazio per entrare nel dettaglio di come le istituzioni economiche (dal sistema di relazioni industriali, alle modalità di governo dell’impresa, al sistema di istruzione e formazione, fino al tipo di innovazioni) si intrecciano per determinare un tipo o l’altro. Basti qui ricordare che, laddove le economie liberali di mercato enfatizzano la mobilità del lavoro e creano disparità più nette tra i lavoratori ad alta e a bassa capacità, quelle coordinate sono caratterizzate da maggiore protezione degli investimenti in capitale umano, e danno luogo a una distribuzione dei salari più egualitaria. Si noti che non è possibile stabilire a priori la superiorità di un sistema sull’altro, visto che ciascuno trova una collocazione nella divisione internazionale del lavoro, e può risultare vincente sotto certe condizioni. Del resto, si sta tornando proprio in questi tempi a guardare con interesse al modello renano (che pure negli anni del boom finanziario era stato considerato inferiore a quello anglosassone) come modello di sviluppo per un’economia come la nostra.
Guardando alla mappa dei paesi che hanno adottato il sistema proporzionale o hanno preferito il maggioritario, è sorprendente come essa sia sovrapposta alla distinzione tra i due tipi di capitalismi. Se questa analisi è corretta, la scelta del sistema elettorale, come quella delle altre istituzioni che definiscono un sistema politico-economico, dovrebbe essere fatta non solo guardando alle variabili strettamente politiche, ma avendo chiaro a quale famiglia di capitalismo apparteniamo e a quale vorremmo appartenere.
Come ci viene spiegato, il modello proporzionale si è diffuso all’inizio del XX secolo come risposta alle esigenze delle economie con capitalismo coordinato, in cui era essenziale il superamento del conflitto di classe tra capitale e lavoro. Anche accettando che il conflitto tradizionale capitale-lavoro sia ormai superato dall’attuale fase di economia globalizzata, resta la necessità di un approccio che non consideri le istituzioni politiche una variabile indipendente rispetto alla struttura produttiva e sociale. In particolare, dopo il fallimento ripetuto di esperienze di governo di segno opposto, viene da chiedersi se le riforme di cui il paese ha bisogno siano realizzabili entro uno schema bipolare, destra contro sinistra, in cui il vincitore di turno cerca di imporre all’elettorato di riferimento della controparte (siano essi i lavoratori autonomi e le imprese con scarsa fedeltà fiscale, o i dipendenti pubblici e “garantiti”) il grosso dei costi della trasformazione. O se invece tale trasformazione non richieda la ricerca di una forma più alta di compromesso sociale, che per realizzarsi ha bisogno di una disarticolazione degli attuali “poli” e dei rispettivi elettorati di riferimento, e quindi formule più flessibili di quelle indotte dal maggioritario.