Dopo mesi di polemiche violentissime, una crisi istituzionale conclamata e una crisi di governo latente che minaccia di esplodere da un giorno all’altro, e che il voto di fiducia delle camere certo non allontanerà più di tanto, bisogna decidersi. A cosa abbiamo assistito, fino a oggi? Cos‘è accaduto attorno alla casa di Montecarlo e a Gianfranco Fini? Abbiamo assistito a una macchinazione dell’ennesima piovra, cricca, loggia, P4 o P5? A oscuri manovratori di quella “macchina del fango” di cui parla Giuseppe D’Avanzo su Repubblica? O siamo invece davanti a una semplice “inchiesta giornalistica” che Repubblica, i finiani e la sinistra vorrebbero imbavagliare, insabbiare, mettere a tacere? Fa bene Repubblica a considerarla una campagna diffamatoria, e il Partito democratico a denunciarla come tale? O ha fatto meglio il Fatto a rilanciarla pochi giorni fa, e Antonio Di Pietro, lo stesso giorno, a chiedere su quella base le dimissioni del presidente della Camera?
In attesa che giunga alla sua inevitabile conclusione – lo sputtanamento definitivo di tutti i suoi protagonisti, quindi della politica in generale e per finire del paese – si può dire sin d’ora che la violenta campagna di stampa contro Gianfranco Fini ha avuto almeno un effetto positivo, sollevando alcune domande decisive sul ruolo del giornalismo in Italia e sulla natura dei suoi rapporti con il potere. Domande non scontate, in gran parte destinate a rimanere senza risposta, ma comunque capaci di aprire una breccia nella gommosa ipocrisia del nostro dibattito pubblico.
Partiamo dalla fine. La questione si fa davvero complicata, infatti, quando il presidente della Camera chiede pubblicamente a Silvio Berlusconi di intervenire sul direttore per far cessare la campagna del Giornale, ponendo questo intervento come condizione per un accordo politico nel Pdl. Non si tratta di una richiesta normale, in un paese democratico. E infatti Vittorio Feltri parla subito di attentato alla libertà di stampa e all’indipendenza dell’informazione dal potere politico. Ma Fini, e con lui buona parte dei commentatori non schierati con il premier, attribuisce a Berlusconi la paternità della linea editoriale del Giornale, considera quella campagna il frutto di una decisione politica del presidente del Consiglio, dunque oggetto di trattativa o di contesa con lui, come qualsiasi altra scelta politica. Tralasciamo pure il fatto che a rigore l’editore del Giornale dovrebbe essere Paolo Berlusconi, non Silvio. Quello che conta è che nel caso di Berlusconi e del Giornale nessuno, salvo gli interessati e al massimo i loro più accesi sostenitori, sembra realmente dubitare dell’influenza determinante dell’editore sul quotidiano e sulle sue scelte. Visto come le cose sono andate fin qui, obiettivamente, si direbbe un’affermazione di banale buon senso. Ma può allora il buon senso, ecco il punto, valere solo per Berlusconi e per il Giornale?
Improvvisamente, almeno in questo caso, l’Italia democratica e progressista sembra scoprire che l’informazione non è neutra, che il ritornello del “noi ci limitiamo a dare le notizie” è un alibi, giacché le notizie si possono anche inventare, costruire, manipolare, e nel momento in cui si decide di pubblicarle non ci si può sottrarre alla responsabilità della propria scelta. Sembra scoprire di colpo che esistono anche i servizi segreti, gli apparati deviati e i semplici avversari interessati a fabbricare o accreditare montature. E così tutti noi riscopriamo termini come “dossieraggio”, “disinformazione”, “character assassination”. E scopriamo, soprattutto, che il concetto di libertà di stampa è un po’ più complesso e scivoloso di come ce lo siamo raccontato noi giornalisti fin qui, presentandolo come una specie di immunità universale e perpetua a nostro esclusivo beneficio.
Su Repubblica, Giuseppe D’Avanzo così definisce la campagna del Giornale: “Una menzogna che tace e copre e manipola quanto ormai è chiaro a tutti dal character assassination di Veronica Lario, Dino Boffo, Raimondo Mesiano, Piero Marrazzo e ancora prima di Piero Fassino. Il giornalismo, diventato tecnica sovietica di disinformazione, alterato in calunnia, non ha nulla a che fare con queste pratiche che non sono altro che un sistema di dominio, un dispositivo di potere”. Parole forti, ma con ogni evidenza non infondate. Sono molti, però, i nomi che si potrebbero aggiungere all’elenco delle vittime. “La macchina del fango” di cui parla D’Avanzo è diventata infatti il modello di una fiorente industria, in Italia. E non da oggi.
Non per nulla, chiamato in causa come uno degli ingranaggi di questa “macchina”, manovrato per giunta da servizi deviati, Roberto D’Agostino replica in un’intervista al Riformista che “D’Avanzo scrive per sentito dire”, che Repubblica “non può definire pestaggio mediatico un’inchiesta giornalistica sul presidente della Camera” e che non si farà “mettere il bavaglio né il bavaglino da nessuno, tanto meno da loro”. E forse c‘è anche una lezione, per Repubblica e per tutti noi, in queste parole.
Ciò non toglie che definire “inchiesta giornalistica” la campagna contro Fini è forse la battuta migliore di tutta l’intervista, si capisce. In primo luogo perché simili inchieste non si preannunciano all’interessato nel modo ricordato da Fini nel suo video-messaggio di sabato – e cioè invitandolo a “rientrare nei ranghi” per non finire sulla graticola – si pubblicano e basta. In secondo luogo perché semmai bisognerebbe parlare di “inchieste giornalistiche”, al plurale, e già solo questo dettaglio dovrebbe bastare a dimostrare l’assoluta irrilevanza del merito e la vera genesi di ciascuna di esse. E in terzo luogo perché di una “inchiesta giornalistica”, fatta al solo scopo di informare e vendere più copie, qualunque giornale sarebbe più che geloso, e farebbe di tutto per conservarne l’esclusiva, mentre in questo caso è evidente il gioco di squadra tra testate che in teoria dovrebbero essere concorrenti.
Si dirà che non è certo la prima volta che diverse testate scelgono di lavorare in pool, con tanti saluti alle favole sulla concorrenza, sulle scelte editoriali dettate soltanto dalla logica del mercato e dalla paura di “prendere il buco”. E’ vero. E qui sta il carattere problematico della questione. A dirla tutta, non è nemmeno la prima volta che la materia di quelle inchieste viene fornita da spioni e intrallazzatori di vario genere, o da chi dovrebbe custodirne la riservatezza. Per essere proprio sinceri, non è né la prima né la seconda. E’ la norma.
Non si tratta di un problema da poco. Al contrario, qui siamo al cuore della questione democratica aperta in Italia. E di questo problema, sia chiaro, lo strapotere berlusconiano rappresenta soltanto una delle due facce. Ma proprio per questo, giunto ormai alla fase finale del suo lungo ciclo politico, Berlusconi per primo avrebbe avuto interesse ad avviare ora una fase di distensione, a contrattare una via d’uscita morbida e graduale dal ventennio che abbiamo chiamato Seconda Repubblica e che è stato a tutti gli effetti il ventennio berlusconiano. Il presidente del Consiglio ha scelto invece la strada opposta, la strada dell’incendio politico-istituzionale, delle campagne di stampa e di odio contro i propri avversari interni. Ma si tratta di armi a doppio taglio, destinate fatalmente a ritorcerglisi contro. E da cui gli sarà assai più difficile difendersi, d’ora in avanti.