Costruire automobili su larga scala è l’attività più complessa che esista nell’industria contemporanea. Vent’anni fa si diceva che per sopravvivere in un mercato globale dell’auto bisognasse produrre almeno 3 milioni di vetture l’anno. Oggi, con il prepotente ingresso di nuovi attori globali come Cina, India, Russia e Brasile, quella soglia minima è già salita a 6 milioni. Una quota che Sergio Marchionne ha detto di voler raggiungere attraverso un complesso piano di espansione dei volumi di produzione articolato su tre livelli. Innanzi tutto vuole sfruttare l’ondata di incentivi che i governi dei paesi in via di sviluppo elargiscono a chiunque decida di produrre auto sul loro territorio. In secondo luogo intende sviluppare alcune joint-venture già avviate con altre case costruttrici cinesi, russe, serbe e turche. Infine cercherà di sfruttare le recenti acquisizioni di altre case automobilistiche, in particolare la Chrysler.
Ciascuna di queste tre scelte strategiche presenta qualche luce e molte ombre. Lo spostamento di alcune produzioni verso paesi in via di sviluppo (è il caso della monovolume in Serbia) garantisce sicuramente un investimento in sostanziale sicurezza, potendone scaricare buona parte del costo sulle casse pubbliche dei paesi ospitanti. Ma il successo di un piano di espansione all’estero non dipende solo dalla produzione di automobili, ma anche dalla capacità di penetrazione in mercati già avviati o dallo sfruttamento di nuove realtà. Il successo di una operazione di questo tipo è legato, oltre che a impegnative scelte tecnologiche e di marketing, anche ai mutamenti sociali e al generale andamento dell’economia, entrambe variabili fuori dal controllo dell’investitore. Già in passato la Fiat si era lanciata in operazioni simili e i risultati erano stati assai poco lusinghieri, complici le crisi finanziarie che misero in ginocchio il Sud America e lo sviluppo sociale tendenzialmente oligarchico di paesi come la Russia, dove le rustiche auto italiane finirono per non avere mercato.
Anche lo sviluppo delle joint-venture con qualche altra casa costruttrice andrebbe analizzato con minore enfasi dai grandi giornali. L’alleanza con le case automobilistiche cinesi, russe, serbe e turche coinvolgerà la Fiat solo per quanto riguarda il know-how e la componentistica. Secondo i piani di Marchionne, dagli accordi con i produttori stranieri ci si attende una produzione di veicoli pari a circa 900 mila unità. Un numero che appare considerevole ma che va ponderato con l’effettivo contributo che la casa di Torino darà alla realizzazione del prodotto finale.
Per quanto riguarda l’acquisizione di Chrysler, infine, non si può certo negare che si tratti di un buon risultato, soprattutto se valutato alla luce della storia recente. La Fiat, che in Italia si è sistematicamente dedicata all’eliminazione – attraverso acquisizione – di tutti i suoi potenziali concorrenti (Lancia, Autobianchi, Innocenti, Alfa Romeo, etc.), sul mercato internazionale ha collezionato infatti una catena di insuccessi davvero impressionante. Dalla sciagurata cessione della spagnola Seat, proprio alla vigilia del boom economico spagnolo degli anni Ottanta, alla mancata acquisizione di Volvo e – più recentemente – di Opel, è difficile sostenere che il management di Torino abbia dato gran prova di sé. Non bisogna però pensare che l’acquisizione della famosa casa automobilistica americana abbia risolto di colpo i problemi di Fiat. Resta infatti ancora senza soluzione la cronica incapacità di progettare modelli di automobili ad alto valore aggiunto, elemento imprescindibile se si intende produrre auto in aree ad alto costo del lavoro come l’Europa occidentale.
L’esempio della Volkswagen è in tal senso emblematico: a partire dagli anni Ottanta l’azienda di Wolfsburg – di concerto con gli azionisti pubblici e privati, per non parlare delle rappresentanze sindacali – ha attuato una mirata campagna di acquisizioni che l’ha portata a diventare proprietaria, fra le altre, di Seat e della Skoda, concentrando su questi marchi le produzioni di fascia bassa e mantenendo invece negli stabilimenti tedeschi la costruzione e l’assemblaggio di veicoli di categoria superiore. In questo modo la Volkswagen ha potuto delocalizzare le fasi più intensive di lavoro a basso contenuto tecnico, conservando così la propria presenza in comparti che avrebbe dovuto abbandonare, e contemporaneamente è riuscita a porsi nelle fasce di produzione più tecnologicamente avanzate, mantenendo posizioni di predominanza sul mercato senza comprimere il costo del lavoro e i diritti delle maestranze, ma puntando sulla qualità delle proprie auto.
Marchionne, invece, di modelli, piattaforme e architetture di produzione non ha voluto ancora parlare. Dei destini degli stabilimenti italiani poco si sa, tranne che l’obiettivo è quello di portare il tasso di utilizzo della capacità produttiva di tutti gli impianti sopra il 90%. Un obiettivo che, in mancanza di una chiara progettualità a lungo termine, viene perseguito quasi esclusivamente con una massiccia ricontrattazione dei rapporti di lavoro, con la finalità dichiarata di riportare la governabilità in ogni stabilimento. Ma lo scarso utilizzo degli impianti italiani non dipende solo da problemi sindacali. Anche nel corso del 2009, in presenza di una bassa conflittualità e di massicci incentivi pubblici, la Fiat ha avuto problemi a vendere le proprie auto. Segnale, questo, che si tratta soprattutto di un problema di prodotto.
Marchionne si è difeso annunciando un faraonico piano di investimenti, ma senza indicarne l’effettivo ritorno economico e la sostanza industriale. Una cosa che ricorda sinistramente le famose 300 mila Alfa Romeo promesse nel 2006 e mai viste: la casa di Arese l’anno scorso si è fermata a fatica sopra quota 50 mila. L’avvocato Agnelli amava dire che fare automobili è un mestiere da giganti. Qualche dubbio sulla grandezza del nuovo management crediamo di poterlo avanzare.