Ma perché l’individualismo è metodologico? Voglio dire: all’indomani del referendum che a Pomigliano ha sancito la vittoria dei sì, Piero Ostellino sul Corriere della Sera ha spiegato che con la maggioranza dei favorevoli all’accordo con la Fiat a Pomigliano “sotto il profilo culturale e del metodo c’è stata la vittoria dell’individualismo metodologico, che riconduce le dinamiche sociali all’individuo, ponendolo al centro, rispetto a quell’astrazione ideologica chiamata collettività”. In qual modo si sia trattato di una vittoria del genere non è chiaro: forse per Ostellino è sufficiente che il sindacato esca sconfitto, perché l’individualismo metodologico trionfi “sotto il profilo culturale e del metodo”; ma che dire allora di alcuni sindacati che hanno firmato l’accordo (o si tratta di sindacati metodologicamente individualisti)? O forse Ostellino aspettava l’esito del referendum per replicare all’articolo scritto, a proposito del conflitto fra capitale e lavoro, dal responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, in cui le macerie di Wall Street venivano fatte cadere, complice l’enciclica papale, proprio sull’individualismo metodologico? In ogni caso, fosse pure come dice Ostellino, il lettore sprovveduto, che non ha alle spalle solide letture austriacanti, non è aiutato dall’autorevole articolista a comprendere perché non si sia trattato, alla fin fine, della vittoria dell’individualismo tout court. Dopo tutto si tratta dell’individuo, no? È lui il protagonista, il vincitore? E allora, perché metodologico? Chi l’ha mai visto un individuo metodologico? Non sarà che qualcuno avrà scritto una volta, dalle parti di Vienna, “individualismo metodologico”, e tutti da allora ripetono “individualismo metodologico” senza sapere bene perché?
Azzardo una spiegazione. Individualismo metodologico, ovvero: individualismo sul piano del metodo. Se la limitazione ha un senso, deve trattarsi del fatto che quel piano metodologico non è l’unico piano (e poi anche, certo, del vantaggio che verrebbe dal disporsi su quel piano). Ma com‘è fatto, quel piano? Descartes, che – detto alla buona – di quel piano è l’inventore, lo spiegava così, più o meno: ho un problema, una certa cosa da spiegare; la scompongo in pezzetti semplici, e vedo ciascun pezzetto com‘è fatto, poi rimonto il tutto a partire da quei pezzetti e se il tutto funziona ho bell’e risolto il problema. Detta così, mi rendo conto, è facile, ma è anche sufficiente a cogliere il punto decisivo: i pezzetti, che Descartes chiamava naturae simplices, nature semplici, e che gli servivano a spiegare la cosa, non era affatto necessario che esistessero davvero, nel tutto da spiegare. Esistano o meno, “basta che col loro aiuto possiate distinguere quale conoscenza intorno a una cosa qualsiasi possa essere vera o falsa”.
Capite? Individualismo metodologico, per dirla in maniera un po’ tranchant, significa che non importa affatto che esistano per davvero gli individui (i pezzetti semplici) di cui si parla: importa solo che, esistano o meno, ricondotte le dinamiche sociali all’individuo, come dice Ostellino, quelle dinamiche si spiegano meglio. Il vantaggio è tutto della spiegazione. Individualismo metodologico significa dunque: non ontologico.
E invece voi leggete Ostellino (e non solo lui, naturalmente), e capite subito che per lui gli individui esistono eccome, ci mancherebbe altro. Tant‘è vero che a beccarsi il titolo di “astrazione ideologica” (evidentemente, la sola parola “astrazione” non bastava a manifestare tutto il disprezzo del commentatore) è quella cosa che Ostellino chiama “collettività”, senza la minima consapevolezza che proprio gli individui, come le naturae simplices di Deascartes, sono delle astrazioni: e non per qualche attardato ideologo collettivista, ma per i padri del metodologismo moderno.
Riprova. W. V. O. Quine, uno dei più grandi epistemologi del ’900. Sentite un po’ cosa scrive (mi scuso per la lunga citazione): “Come empirista io continuo a considerare lo schema concettuale della scienza come un mezzo, in ultima analisi, per predire l’esperienza futura alla luce dell’esperienza passata. Gli oggetti fisici vengono concettualmente introdotti nella situazione come comodi intermediari […] paragonabili, da un punto di vista epistemologico, agli dei di Omero. Io, che di fisica ho nozioni più che comuni, credo per parte mia negli oggetti fisici e non negli dei di Omero; e considero un errore scientifico credere altrimenti. Ma in quanto a fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei differiscono solo per grado e non per la loro natura. Sia l’uno che l’altro tipo di entità entrano nella nostra concezione soltanto come postulati culturali. Da un punto di vista epistemologico il mito degli oggetti fisici è superiore agli altri nel fatto che si è dimostrato più efficace degli altri miti come mezzo per elevare una semplice costruzione nel flusso dell’esperienza”.
Gli individui, insomma, stanno in compagnia degli oggetti fisici ma anche degli dei di Omero. Il che, in conclusione, significa: Ostellino può vantare per i suoi individui tutta la superiorità epistemologica che vuole, benché quella pure sia discutibile; quel che non può fare è far finta che “metodologico” non voglia dir nulla, che gli individui di cui parla “l’individualismo metodologico” non siano astratti pure quelli, “comodi intermediari” per spiegare la realtà piuttosto che enti reali essi stessi. Naturalmente è tutto il contrario: una cosa del genere può farla e l’ha fatta; ma è per dire che, se si vuol bandire l’ideologia, si dovrebbe cominciare proprio dall’articolo di Ostellino, che ne è un piccolo ma abbastanza fulgido esempio.