Il dibattito sul ruolo dei cattolici nel Partito democratico, e di conseguenza sulla stessa plausibilità storica del Pd, sembra assumere finalmente un profilo insieme più concreto e più alto, in grado cioè di affrontare i problemi politico-culturali di fondo della questione. Le condizioni che rendono possibile questa evoluzione sono due, l’una di natura contingente, l’altra di portata addirittura epocale. La prima è quella che si potrebbe definire la stabilizzazione del Pd operata dalla segreteria Bersani: il partito non ha certo risolto in pochi mesi tutti i suoi problemi di profilo ideologico-identitario, proposta programmatica, alleanze politiche e sociali, assetto organizzativo. La guida di Bersani ha però il merito di avere imposto un orizzonte di lavoro più lungo e stabile, disattivando quella psicosi per cui la stessa sopravvivenza del Pd veniva legata all’esito delle elezioni provinciali di Trento piuttosto che delle regionali della Sardegna. La seconda condizione è la cesura storica rappresentata dalla crisi economico-finanziaria globale. La portata dei cambiamenti sociali e culturali che la crisi sta producendo in Europa e nel mondo è tale che una qualche consapevolezza di essi inizia ad affacciarsi perfino nel dibattito pubblico italiano.
Le conseguenze della crisi offrono dunque al Pd la possibilità di rovesciare lo schema seguito nei suoi primi anni di vita per individuare un punto di equilibrio tra centro e sinistra, tra presidio del fronte moderato e capacità di coagulare larga pare dell’elettorato progressista. Ridotto all’osso, questo schema si basava sulla convinzione di parlare all’elettorato cattolico e moderato con un profilo abbastanza liberista sui temi economico-sociali e di potere invece presidiare il campo della sinistra con una certa intransigenza sui temi etici, dei diritti civili e della giustizia. Questo impasto di liberismo, individualismo dei diritti e laicismo spiega abbastanza bene quale sia diventato il perimetro elettorale del Pd in questi anni: un partito forte nei centri urbani a più alta concentrazione di “ceto medio riflessivo”, decisamente più debole nelle periferie e nelle aree interne, connotate da una presenza più accentuata di ceti popolari e di fasce produttive, meno interessate ai temi di principio e più alle concrete condizioni materiali di vita e di lavoro. In questo modo, il Pd non solo ha accentuato il suo distacco dalle fasce popolari e dalla loro concreta cultura materiale (a cui invece il tremontiano «Dio, patria e famiglia» ha offerto un riferimento rozzo e regressivo, ma certo più caldo, comunitario e attraente del soggettivismo atomistico e del relativismo etico proposti sull’altro fronte), non solo ha alimentato la sensazione di disagio in ambito cattolico, ma di quel mondo non è riuscito a intercettare neppure il fermento intellettuale suscitato dalla crisi economica in diversi settori dell’associazionismo e della cultura.
La congiuntura attuale offre al Pd l’occasione per ribaltare questo impianto, fondato peraltro sull’idea che la capacità di interpretare la società contemporanea dipenda dal grado di discontinuità rispetto alle culture politiche fondatrici. Dopo la crisi, dovrebbe apparire chiaro che la sintesi innovativa tra centro e sinistra, tra popolarismo e socialismo, vada piuttosto cercata in un coerente superamento del paradigma individualistico, sia in ambito economico-sociale sia sul terreno etico e dei diritti civili. Oggi, quasi più delle socialdemocrazie europee, che in parte ancora faticano a uscire dalla lunga subalternità culturale a un’idea del riformismo come mero temperamento del liberismo, sono i settori più avanzati del pensiero economico-sociale di estrazione cattolico-popolare a porre in termini strutturali, o perfino antropologici, il tema di una critica e di una riforma del capitalismo e di un ruolo imprescindibile dei poteri pubblici nella regolazione del mercato, nelle politiche redistributive, nella lotta contro disuguaglianze divenute intollerabili.
Il recupero di un profilo credibile su questi temi può liberare il Pd dall’ansia di cercare la sua “anima” di sinistra nell’inseguimento di un individualismo estremo sui temi etici e civili, fondato in ultima istanza sulla riduzione dei diritti a permessi e su un radicale relativismo. Certo, si tratta di un terreno delicato, tenuto conto dello slittamento verso posizioni laiciste e radicaleggianti di settori non marginali dell’attuale elettorato di sinistra. Ma si può davvero pensare di costruire in Italia una grande forza popolare che non abbia, se non la «politica ecclesiastica» teorizzata da Scoppola e richiamata negli interventi di Castagnetti e Sardo, almeno una strategia di dialogo, certo né strumentale né subalterno, con le posizioni della Chiesa cattolica? E, visto che il precedente dispositivo liberismo-laicismo-individualismo aveva una sua coerenza logica e concettuale, si può ritenere che l’emancipazione dal paradigma individualistico sui temi economico-sociali non debba avere una qualche conseguenza anche sul modo in cui si affronta il tema dei diritti e delle libertà sulle materie eticamente più spinose? O ancora (e qui davvero si è consapevoli di entrare su un terreno minato): la sfida anti-relativistica e razionalistica lanciata al mondo laico dall’attuale Pontefice non meriterebbe di essere non subita passivamente, né schernita superficialmente, ma raccolta a viso aperto dalle forze intellettuali che si muovono attorno al Pd, a un partito nato cioè con l’ambizione di riaffermare nella società del ventunesimo secolo la forza della razionalità democratica e di contrastare il sostanziale indifferentismo etico legato al populismo berlusconiano?