In questi giorni sta finalmente venendo alla luce lo scontro sotterraneo in corso tra Francia e Germania sulla strategia che l’Unione europea dovrà seguire per affrontare la nuova fase della crisi, dopo che gli interventi per il salvataggio del sistema bancario privato hanno finito per gravare pesantemente sui bilanci pubblici dei singoli stati. L’annullamento del vertice franco-tedesco di ieri, rinviato alla prossima settimana senza fornire giustificazioni di alcun tipo, lascia trasparire la crescente irritazione francese per le scelte politiche della cancelliera Merkel e del suo governo, ancora una volta incapace di assumere un’iniziativa di respiro europeo che possa ridare slancio all’intero continente. I fatti sono noti: l’attacco speculativo di cui è stata recentemente vittima la Grecia ha costretto quasi tutti i paesi dell’assai poco prestigioso club dei Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) a mettere in cantiere pensati manovre di rientro con innegabili effetti depressivi sulla domanda interna. Ufficialmente, ciascuna correzione è stata presentata come un elemento imprescindibile per riportare i debiti pubblici sotto controllo ed evitare così nuove ondate speculative. In realtà, come mostrato da alcune recenti analisi empiriche, lo spread sui tassi di interesse, più che essere legato alla situazione debitoria statale (per altro assai variegata fra gli stessi Piigs), sembra dipendere soprattutto dalla dinamica dei conti esteri, che per tutti questi paesi si presenta da anni strutturalmente in deficit. Il motivo è semplice e abbastanza intuitivo: la presenza di disavanzi commerciali con l’estero lascia aperta la possibilità che l’area del Mediterraneo prima o poi decida di affrontare gli irrisolti problemi di competitività abbandonando la moneta unica e tornando all’antica e consolidata pratica delle svalutazioni competitive. Un rischio, questo, che finisce per ripercuotersi inevitabilmente sul differenziale dei tassi di interesse sul debito e quindi sulla possibilità dei singoli governi di far fronte ai futuri obblighi contratti.
Le ragioni della scarsa competitività dell’area del Mediterraneo sono molteplici, non da ultimo alcune discutibili scelte di politica industriale che hanno visto alcuni paesi – e in particolare l’Italia – indebolire, se non addirittura distruggere, la manifattura pubblica, che costituiva l’unico campione nazionale capace di posizionarsi nei settori ad alto valore aggiunto. Ma non va dimenticato che, fra le cause esterne, vi è l’ormai nota strategia mercantilista e iper-competitiva praticata dalla Germania e basata da un lato su un livello di salari reali sistematicamente inferiore alla produttività del lavoro, dall’altro sulla costruzione di uno spazio industriale sovranazionale che ha permesso di delocalizzare tutte le fasi meno intensive della ricerca e più intensive di lavoro a basso contenuto tecnologico verso i paesi della Mitteleuropa e del Mediterraneo. Questa politica ha garantito alla Germania non solo la possibilità di sfruttare la crescente domanda di beni di investimento che arriva dalle economie emergenti (Brasile, Russia, India e Cina), ma ha anche permesso – proprio grazie all’introduzione dell’euro – di indondare di merci tedesche tutta l’Unione europea. Infatti, se da una parte la Germania importa prodotti intermedi dai paesi che fanno parte della sua filiera produttiva, dall’altra fornisce loro prodotti finiti con un evidente guadagno finale in termini di valore aggiunto. Il paradosso di questo meccanismo è che quella che viene da tutti definita la “locomotiva d’Europa”, il gigante buono costretto a caricarsi sulle sue solide spalle dozzine di piccoli e grandi paesi indisciplinati e poco competitivi, più che trainare la crescita europea si sta facendo trainare proprio dal gruppo dei Piigs, che infatti presentano tutti pesanti disavanzi commerciali nei suoi confronti. Una situazione debitoria che, nonostante le correzioni messe in cantiere dai vari governi, rischia di essere vanificata, se non di aggravarsi ulteriormente, a causa della decisione tedesca di varare una corposa manovra restrittiva da 80 miliardi di euro. Con questa scelta – come ha ravvisato anche Nouriel Roubini in una sua recente intervista a Repubblica – si finirà per deprimere l’economia dell’intero continente, determinando una interminabile corsa alla deflazione competitiva da cui saranno proprio i paesi meno avanzati tecnologicamente a uscire sconfitti, costretti a un crescente schiacciamento dei redditi da lavoro e dei diritti sociali per cercare di compensare la superiore competitività tedesca. La ferrea convinzione del governo di Berlino, ma anche della grande stampa e del governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, che sia compito dei paesi debitori farsi carico del riequilibrio dei conti esteri si basa su un assunto irrealizzabile. Sarebbe come prentendere di far gareggiare un corridore già lento su un gigantesco tapis roulant. Anche profondendo il massimo dello sforzo, non solo non raggiungerà mai il corridore più veloce, ma rischierà prima o poi di dover abbandonare la gara, sopraffatto dalla fatica. Un ritiro che, nel nostro caso, determinerebbe il quasi sicuro naufragio della moneta unica e il ritorno alle valute nazionali.
Nonostante sia chiarissimo che lo sfascio dell’euro danneggerebbe soprattutto la Germania, di nuovo vittima delle politiche di svalutazione competitiva in buona parte dei suoi attuali mercati di sbocco, le probabilità che il governo tedesco cessi improvvisamente di comportarsi politicamente come un Granducato ed economicamente come una versione occidentale della Cina sono piuttosto scarse. L’unica speranza di evitare il disastro sta nella possibilità di affrontare il problema in chiave europea, garantendo ai paesi impegnati nella ristrutturazione dei propri bilanci un livello di domanda interna capace di rendere meno doloroso e più duraturo il percorso di rientro. Ma per fare tutto questo ci vorrebbe una classe dirigente all’altezza degli eventi che purtroppo, in questa Europa a guida conservatrice, sembra essere merce piuttosto rara.