Dopo settimane di autentico terrore, il vertice europeo del 9 maggio ha approvato un maxi-piano di salvataggio per la Grecia che, pur fra residue turbolenze dei mercati sul fronte dei cambi, sembra avere ridato un po’ di fiato all’Ue. Oltre all’ammontare complessivo (ben 750 miliardi di euro, ripartiti fra Ue, stati membri e Fmi) e alle modalità di erogazione, due sono le decisioni che possono essere guardate con particolare favore. La prima riguarda la possibilità per la Banca centrale europea di acquistare titoli del debito pubblico degli stati; la seconda, la decisione di consentire all’Unione di concedere prestiti a singoli membri in difficoltà. Decisione che, dato il volume delle risorse stanziate nel caso della Grecia – come ha notato Roberto Gualtieri – apre per la prima volta la porta alla concreta possibilità di emettere eurobond. Si tratta di scelte che cambiano in maniera radicale due capisaldi della costruzione europea post-Maastricht: l’assoluta indipendenza della banca centrale dai governi e l’impossibilità da parte della Ue di emettere propri titoli di debito.
Tuttavia, nonostante queste importanti innovazioni, lo scenario dei prossimi mesi appare tutt’altro che rassicurante. La classe dirigente europea, supportata dalla solita schiera di commentatori ed economisti, sembra infatti intenzionata a riproporre strategie già sperimentate con scarso successo negli ultimi vent’anni: ricerca spasmodica della competitività (su cui già è stata prodotta la nuova agenda 2020, dopo il fallimento di quella di Lisbona), rafforzamento delle esportazioni, contenimento dei costi di produzione, deflazione competitiva, seguendo – manco a dirlo – l’esempio della Germania. Ma le stesse critiche che da anni vengono rivolte alla locomotiva tedesca si possono trasferire all’intera Ue. Un modello di sviluppo basato sul surplus commerciale generato dalle esportazioni e sugli investimenti fissi privati può andare bene per un piccolo paese, mentre rischia di rivelarsi assai problematico per una economia che conta oltre 400 milioni di abitanti. Uno degli insegnamenti che abbiamo potuto trarre da questa crisi è che le esportazioni non dipendono unicamente dalla competitività delle merci prodotte, ma sono anzi pesantemente condizionate da eventi che sono in buona parte al di fuori della sfera decisionale dei governi europei. Da parte loro gli investimenti fissi privati tendono a muoversi seguendo quelli del resto del mondo e mostrano una maggiore volatilità rispetto ai consumi. La scelta di questa strategia di sviluppo lascia quindi l’Ue in balia di tutte le tempeste che si scatenano nel mondo, agganciando i propri destini ai comportamenti più o meno saggi degli altri paesi.
Anche il dibattito iniziato sulla revisione del Trattato di Maastricht, peraltro, rischia di trascinare l’Europa su una strada sbagliata. La pur apprezzabile intenzione di rivolgere maggiore attenzione alla sostenibilità del debito rispetto ai deficit di bilancio annuali, infatti, porta con sé il pericolo di una inversione fra causa ed effetto. Come ha saggiamente ricordato Paul De Grauwe, intervistato giovedì scorso sulla Stampa, la crisi della Ue non è stata determinata da una finanza pubblica fuori controllo. La posizione della zona euro all’inizio della crisi si presentava tutt’altro che compromessa sia a livello aggregato (un rapporto deficit/pil all’1,5% e un rapporto debito/pil al 64%) sia per quanto riguarda i singoli paesi. Anche gli stati tradizionalmente ritenuti fiscalmente deboli e con minore credito da parte della comunità internazionale erano tutti in fase di rientro e consolidamento del debito, eccetto la Grecia per i ben noti motivi legati alla gestione truffaldina del precedente governo conservatore di Kostas Karamanlis. Gli altri membri del cosiddetto “Pigs-group”, Portogallo, Spagna e Irlanda, presentavano dei livelli di indebitamento inferiori alla media europea (rispettivamente 63,6%, 36,2% e 25,0%). L’esplosione dei debiti pubblici non è stata quindi la causa del gigantesco default del settore privato, ma un suo effetto. Sui bilanci degli Stati sono infatti gravate, oltre ai sussidi erogati a sostegno di imprese in difficoltà e a lavoratori disoccupati, le ingenti spese per il salvataggio del sistema bancario (il 10,9% del pil, secondo un rapporto della Commissione europea), con punte impressionanti in paesi come la Germania e la stessa Grecia. Limitarsi a curare l’effetto, e non concentrarsi sulla causa, non sembra la migliore medicina per evitare ricadute in futuro. Allo stesso modo, scaricare sui lavoratori e sulle imprese il risanamento finanziario – come sembra stiano iniziando a fare alcuni paesi europei – non sembra essere né equo né efficiente alla luce di quanto accaduto. Forse i soldi bisognerebbe chiederli anche a chi quei giganteschi buchi ha contribuito a crearli, e cioè al settore bancario e finanziario. Ma su questa strada, per il momento, sembra essersi incamminato il solo Barack Obama.