L’intervento di apertura di monsignor Angelo Bagnasco ai lavori del seminario di studio del 3 maggio, a Genova, in preparazione della Settimana sociale dei cattolici, è un contributo di importanza davvero particolare, sebbene sparito rapidamente dall’evidenza nel sito ufficiale della Conferenza episcopale italiana, sobriamente resocontato da Avvenire con un articolo nelle pagine interne, senza pubblicazione del testo integrale né richiami evidenti in prima pagina, e anzi forse rispettosamente “corretto” o almeno depotenziato il giorno successivo, sempre sul quotidiano della Cei, da un editoriale di Francesco D’Agostino che in qualche modo ne contestava l’impostazione esortando a celebrare i centocinquant’anni dell’unità d’Italia con «meditata consapevolezza», senza confondere quello che fu «un evento ‘politicamente’ di grande rilievo» con «un evento di rilevanza ‘nazionale‘», perché in fondo «la Nazione c’era già» e nel 1861 nacque “solo” lo Stato.
Se ne sono accorti in pochi, però mai come in questo caso vale il detto: pochi ma buoni. Giorgio Napolitano, per dire, che ha inviato al presidente della Cei una risposta articolata e calorosa riconoscendo «il grande contributo che la Chiesa e i cattolici hanno dato, spesso pagandone alti prezzi, alla storia d’Italia e alla crescita civile del paese», un contributo, ha scritto il presidente, «che può essere essenziale anche oggi sul fronte delle riforme, dell’integrazione e della coesione sociale». E Pier Luigi Bersani, che attraverso le agenzie ha mandato un chiaro segnale di “ricevuto” sparito poi dalle pagine dei giornali del giorno successivo: niente polemica, allora niente notizia sui rapporti tra la Cei e il Partito democratico, devono aver valutato nelle redazioni. E così ben pochi italiani hanno saputo che il segretario del Pd coglieva nel testo di Bagnasco il riferimento al «valore del patto costituzionale su cui si fonda la nostra convivenza come chiave dell’unità della nazione, e il contributo alto che a questo patto ha dato l’incontro generoso e fecondo tra uomini e donne provenienti da culture cattoliche e da culture laiche. Grandi personalità, ma anche grandi ideali che si unirono per trovare insieme la strada». Un incontro, concludeva Bersani, che resta «un punto di riferimento imprescindibile per guardare alla storia del paese e al suo futuro».
Sua Eminenza, è chiaro, fa più notizia quando parla contro l’aborto e si presta ai sospetti di voler mettere il veto cattolico ai candidati troppo laici. Oppure quando contrasta la linea dura sull’immigrazione ma poi tende la mano ai ministri leghisti. Il presidente della Cei del resto non ha una strategia di comunicazione lucida e consapevole come aveva invece il suo predecessore; è più attento ai riflessi interni degli eventi cui partecipa, è meno personaggio pubblico e più pastore. Per questo, Bagnasco va letto un po’ tra le righe sulla stampa generalista. Oppure, va letto andando direttamente alla fonte.
Il suo discorso allora, o meglio il “saluto” all’avvio del seminario di studi che il cardinale ha voluto si svolgesse nella “sua” Genova, che è anche la città delle celebrazioni del centocinquantenario: al mite Bagnasco l’aggettivo si addice poco e certamente non lo approverebbe, ma quello del 3 maggio è un testo rivoluzionario, almeno rispetto al linguaggio e ai temi circolati ai vertici della Chiesa italiana nell’ultimo ventennio. Perché il filo conduttore del ragionamento del cardinale è il riconoscimento del ruolo “nazionale” dei cattolici nella storia d’Italia. Da qui il riferimento colto da Bersani al momento fondante della Costituzione, ma da qui anche un’impostazione fondata sulla ricerca di un «incontro tra differenze» all’interno di quello che Bagnasco definisce, con citazione sturziana, «il sano agonismo della libertà», che ebbe come esito la costruzione di un patto «la cui grandezza non sta in un’astratta perfezione, ma nell’averci consentito di andare avanti per una strada buona». Un’impostazione davvero lontana da quella fondata sulla “non negoziabilità” dei valori della Chiesa e sulla rivendicazione del suo ruolo di “parte” e di potere separato, in un rapporto negoziale col potere dello stato. È presto per dire che Bagnasco supera il ruinismo, anche perché la partita nella Chiesa è tutta da giocare, ma i toni sono davvero diversi. L’accenno a una Chiesa che nella società «non ha avversari, ma ha davanti a sé solo persone a cui parla in verità», il riferimento all’Etica nicomachea in cui Aristotele insegna che «è l’amicizia che tiene insieme le città», e si aggiunge che «noi come Chiesa non ci sentiamo estranei né a questa idea né a questa esperienza», sono parole che indicano una strada assai diversa da quella a cui gli ultimi anni ci hanno abituati.
La strada, conclude Bagnasco, di «un futuro da condividere», che «è opera cui la Chiesa è chiamata in quanto segno e strumento, allo stesso tempo, dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano». E qui la citazione resta implicita, perché non c‘è bisogno di spiegare: Lumen Gentium, capitolo 1, paragrafo 1, nessun interlocutore di quelli a cui pensa Bagnasco potrebbe non riconoscerla. È la strada del Concilio.