La crisi che sta investendo la Grecia in queste ultime settimane ha ricordato a molti la terribile estate del 1992. Il no al Trattato di Maastricht decretato nel giugno di quell’anno dalla Danimarca e le successive attese sul risultato dell’analogo referendum francese si erano trasformate in un vero e proprio incubo per il nostro paese. Un’attività speculativa, prima latente e poi sempre più estesa, aveva finito col costringere l’Italia – dopo una pesantissima emorragia di riserve valutarie – ad abbandonare lo Sme assieme alla Gran Bretagna.
Questa volta la situazione è, se possibile, ancora più grave, perché i destini dell’Europa non sono legati all’approvazione di un pilastro fondamentale delle istituzioni comunitarie, ma all’esito elettorale di una competizione locale – quella del Nordreno-Vestfalia – cui è associata la stabilità e probabilmente la stessa esistenza della coalizione conservatrice che sostiene il governo di Angela Merkel.
L’insipienza con cui è stata gestita la crisi greca, dalla sua origine fino alle vicende di queste ultime settimane, finirà sicuramente nei libri di storia. Presa per tempo, tutta la questione si sarebbe risolta in pochi giorni. Il debito totale greco pesa infatti sul pil europeo per un misero 3 per cento, e la somma inizialmente necessaria per mettere in sicurezza la Grecia sarebbe stata di soli 40 miliardi di euro, un ventesimo di quanto è costato agli Stati Uniti il piano Paulson per il salvataggio degli istituti finanziari privati e molto meno di quanto stanziato nel marzo del 2009 dalla Ue per soccorrere i paesi dell’Est in difficoltà. Sarebbe bastato un intervento volto ad autorizzare la Banca centrale europea ad acquistare titoli del debito pubblico greco, annunciando pubblicamente che nessun paese impegnato in operazioni di risanamento concordate con le istituzioni comunitarie sarebbe potuto fallire. Dopotutto, negli ultimi due anni la Bce ha abbattuto i requisiti di collaterale per i prestiti alle banche, accettando titoli di dubbia qualità e in taluni casi addirittura acquistando dei veri e propri titoli spazzatura in cambio di valuta. Non si capisce perché una banca centrale trasformata nel cestino della spazzatura delle banche private dovrebbe invece lasciar fallire uno Stato nazionale. Eppure si è preferito temporeggiare, osservando il corso degli eventi, in una lunga e imbarazzante sequela di dichiarazioni e marce indietro, dimenticandosi che, fra le varie opzioni sul campo, quella di non fare nulla era sicuramente la peggiore.
Il problema però non sta solamente in una paralisi legata all’esito destabilizzante di elezioni locali, o al pericoloso riemergere di egoismi nazionali. Pesa anche, e molto, la subalternità a uno schema di pensiero che, nonostante la pesante crisi economica e finanziaria iniziata nel 2007, sembra incredibilmente solido nelle menti delle classi dirigenti europee. L’idea che fosse sufficiente costringere i singoli governi nazionali al rispetto di qualche vincolo contabile per tenere in piedi una unione economica e monetaria si è rivelata una pericolosa illusione. Dopo che per anni si erano elevati alti e robusti firewall di protezione contro gli eccessi della finanza pubblica (Trattato di Maastricht, Patto di Stabilità, etc.), l’incendio è scoppiato nel settore privato e si è diffuso senza incontrare ostacoli né, successivamente, risposte politiche adeguate. Per mesi abbiamo sentito ripetere come un mantra che la crisi aveva natura globale e poteva essere affrontata solo con misure globali o quantomeno su scala comunitaria. Ma ci si è mossi nella direzione diametralmente opposta.
Lo stesso è accaduto anche nei momenti più gravi della crisi greca. Nella mente di politici e commentatori è rimasta scolpita l’idea che una crisi finanziaria in un singolo paese (che sia dovuta a problemi di insolvenza pubblica o privata) debba essere risolta dal paese stesso e non affrontata come problema sistemico. Ma una posizione di questo tipo non sta scritta in qualche legge economica, è solo la meccanica ripetizione di quanto è scritto nei Trattati dell’unione monetaria. In questo modo la Ue è finita in un cul de sac da cui non si intravvede via d’uscita: da un lato si ripete noiosamente che aiutando il governo ellenico si creerebbe un incentivo all’azzardo morale da parte degli altri paesi, dall’altro si è certi che imponendo la disciplina di Maastricht (quindi non concedendo aiuti) la Grecia verrebbe fatta fuori dagli speculatori nel giro di una settimana, e che poi l’obiettivo si sposterebbe su qualche altro paese del Mediterraneo, trascinando l’intera area dell’euro nel caos. Stretti in questa morsa, si è deciso di non fare nulla. Si continua a recitare il mantra delle regole non rispettate, dimenticandosi che il primo paese a violarle – come ha ricordato con molta onestà l’ex-ministro delle finanze tedesco Theo Weigel – è stato proprio la Germania, con la complicità interessata di Francia e Italia.
Il problema, invece, sta proprio in quelle regole che si sono rivelate inadatte allo scopo per cui erano state create. Sta tutto qui il paradosso di una unione monetaria ed economica che rischia di restare impiccata alle stesse norme che le avevano permesso di nascere.