Secondo me è giusto votare sì al referendum elettorale. O meglio, è giusto farsi largo e cercare di costruire le condizioni perché un buon risultato del sì possa poi essere speso in una buona battaglia riformista. La tesi contraria è in apparenza più semplice: restando alla lettera dei quesiti, il premio di maggioranza viene trasferito dalla coalizione al partito primo classificato, dunque si crea un sistema non molto dissimile dalla legge Acerbo, con l’aggravante dell’innalzamento della soglia di sbarramento (che, come tutti i democratici comprendono, proprio non si concilia con un premio così forte).
Forse però la semplicità stavolta può essere una via di fuga di fronte all’intricato groviglio di tattiche e strategie, che non riguardano solo il Pd o il campo dell’opposizione. E’ vero che Silvio Berlusconi potrebbe teoricamente, a seguito di una vittoria dei sì, rompere con la Lega, mandare all’aria il proprio governo e tentare la strada della vittoria solitaria e della conquista del potere assoluto. Ma, sinceramente, non mi pare una prospettiva realistica. Il rischio per lui sarebbe troppo alto. La comprensione del suo elettorato non scontata. E poi c‘è il rapporto con la Lega, che non può permettersi di allentare oltre una certa misura. Andrebbe in minoranza nelle regioni del Nord. Spaccherebbe il suo blocco sociale. Insomma, posso anche credere che Berlusconi stia meditando una chiusura anticipata della legislatura (per ipotecare il Quirinale prima possibile e/o per spostare a suo favore i rapporti di forza con l’attuale Capo dello Stato), ma non che intenda farlo avendo la Lega contro. (peraltro si è ipotizzato anche un altro scenario estremo: se Berlusconi tentasse la traversata in solitaria, Pd, Udc e Lega potrebbero, messi alle strette, dar vita a un governo per la riforma elettorale. E la riforma elettorale, a quel punto, non sarebbe molto lontana dal modello tedesco).
E’ vero che il modello tedesco auspicato nel famoso convegno delle Fondazioni resta oggi fuori dai percorsi plausibili della legislatura. Ed è anche vero che l’imprinting del movimento referendario è lo stesso che ha segnato prima la rivoluzione del ’93, poi la deriva presidenzialista degli anni successivi, infine la drammatica illusione bipartitica. Ma i referendari per primi saranno costretti, da oggi in poi, ad allargare il fronte del sì non soltanto ai presidenzialisti e ai bipartitisti incalliti, ma a tutti coloro che con diverse ragioni avversano il Porcellum. Mario Segni che si fa “portavoce” del sì di Massimo D’Alema anticipa questo scenario. E credo che sia una buona occasione politica. Anche per aprire un confronto con chi si sente erede di quel movimento che aprì le porte al bipolarismo e alla democrazia dell’alternanza, e che tuttavia rifiuta un’analisi critica sulle storture di questi anni e sulle manipolazioni che hanno consentito, ora attraverso l’indicazione del premier sulla scheda, ora con le liste bloccate del Porcellum, ora con l’abuso della decretazione d’urgenza, l’affermarsi di questo quasi-preidenzialismo, modellato sulle peculiarità di Berlusconi e della sua coalizione.
Naturalmente la condizione perché questo confronto sia davvero positivo è che quanti condividono il documento finale delle Fondazioni entrino nella campagna referendaria con le loro idee. Le riassumo così: i mali da estirpare nel Porcellum sono innanzitutto il premio di maggioranza e la lista bloccata. Si può discutere se sia meglio la preferenza o il collegio uninominale, si può anche discutere come correggere il sistema tedesco per ridurre il rischio della Grande coalizione; ma è bene che queste idee entrino con forza, e in modo esplicito, nel dibattito pubblico. Proprio l’ampiezza e l’autorevolezza delle personalità coinvolte nel convegno delle Fondazioni del luglio 2008 possono essere una leva per contestare l’egemonia, durata troppo a lungo a sinistra, della retorica bipartitista. Il fallimento, ormai acclarato e non più contestato, della linea dell’autosufficienza del Pd è un preziosissimo alleato.
Si dirà: il Pd non ha la forza oggi di fare sua la piattaforma delle Fondazioni. Probabilmente ci vorrà il congresso. Ma questa battaglia sul fronte del sì può essere decisiva nel campo del centrosinistra. Se il Pd è ancora impossibilitato a dire la sua perché una linea non ce l’ha, ebbene, allora chi è per il governo parlamentare, chi è per un ragionevole pluripartitismo (pensando che il bipartitismo è solo l’altra faccia della frammentazione), chi è convinto che solo ridando forza nelle istituzioni ai partiti questi possono tenere le loro radici nelle società, chi pensa che l’inerzia attuale porti a consolidare il binomio leaderismo-populismo, deve parlare a voce alta. E credo che sarebbe uno spreco se lo facesse schierandosi per il no.
Dicendo no il rischio è diventare irrilevanti, sparire dal dibattito pubblico, rimanere schiacciati tra chi vuole difendere la legge esistente e chi invece predica il bipartitismo. Mi rendo conto che, a questo punto, qualcuno potrebbe sollevare l’obiezione: ma se il Pd balbetta, chi ci assicura che la proposta di un governo parlamentare sul modello continentale possa farsi davvero strada nel fronte del sì? Ammetto che un rischio ci sia. E che, se tutti balbettassero, la tenaglia tra trionfo del Porcellum e schema presidenzialista sarebbe inesorabile. Ma confido in qualche coraggioso. Anzi, non si tratta di coraggio, ma di opportunità.