La crisi dei mutui è scoppiata nell’estate del 2007. La nazionalizzazione della Northern Rock è stata annunciata il 17 febbraio del 2008. Sostenere che fino a un anno fa nessuno potesse prevedere una simile crisi, pertanto, è semplicemente falso. A meno che non s’intenda la parola “previsione” nel suo significato letterale. A rigor di termini, infatti, non si trattava di previsioni, ma di constatazioni. Senza contare che della bolla immobiliare americana e degli effetti che la sua esplosione avrebbe prodotto sull’economia mondiale si parlava da anni.
Dove non ha potuto la mano invisibile dell’interesse personale, ad accecare tanti autorevoli osservatori è stata fino a oggi una precisa visione del mondo. Fondata su una catena di false equazioni: mercato-merito-efficienza da un lato, politica-corruzione-sperpero dall’altro. E’ una gigantesca costruzione ideologica, quella che è crollata a Wall Street. Un’idea dell’economia, ma anche un’idea della politica. Un’idea del mercato, ma anche una precisa concezione dello stato e dei suoi compiti. Un’intera cultura. E un modello, quello angloamericano.
I modi di pensare consolidati, com’è noto, cambiano molto più lentamente di qualsiasi altra cosa. Ma è certo che vedere ogni giorno il governo degli Stati Uniti discutere l’ipotesi di nazionalizzare le banche, costruire un sistema sanitario universalistico e trattare con l’Iran, se non con i Talebani, finirà per illuminare anche le menti più ottenebrate.
Le dimissioni di Walter Veltroni e quella che viene impropriamente definita la “svolta a sinistra” del Partito democratico vengono da qui. E sono due brutte notizie per Silvio Berlusconi. “Peccato – ha dichiarato con candore Fedele Confalonieri al Corriere della sera – mi piaceva il progetto che avevano in mente, quello cioè di creare un sistema sostanzialmente bipartitico. E speravo di vedere l’Italia trasformata in una democrazia anglosassone. Oddio, con i disastri finanziari che hanno fatto in quei paesi, forse il paragone non è dei migliori”. Ecco, non avremmo saputo dir meglio. Il progetto che il leader del principale partito di opposizione e il capo del governo avevano in mente era proprio questo: una radicale riforma delle istituzioni e del sistema dei partiti. L’esito immaginato era un sistema presidenziale e bipartitico, incentrato su leadership carismatiche e partiti leggerissimi, ridotti a poco più che comitati elettorali, quando non direttamente proprietà personale del capo. Non per caso, l’ultima battaglia in cui tutti i principali sostenitori dell’ex segretario del Pd si sono impegnati è quella per il referendum elettorale, che mira esattamente a questo obiettivo.
Il problema del Partito democratico, oggi, non sta dunque nel rinnovamento dei suoi gruppi dirigenti, nel ricambio generazionale, nelle facce nuove. Dario Franceschini ha appena tre anni più di Barack Obama, la nuova segreteria è composta in larga parte di trentenni e le loro facce sono ancora oggi ai più ignote. Sono le idee che sono decrepite, a cominciare da una certa idea di rinnovamento di cui Veltroni è stato al tempo stesso il primo beneficiario e il maggiore artefice. E non vogliamo citare i molti dolorosi esempi che si potrebbero trarre dai suoi organismi dirigenti e dalle sue liste elettorali, perché sono fin troppo noti. Appassita la leadership veltroniana, si è tentato di sostituirla con quella di Renato Soru, che ha applicato alla Sardegna lo stesso schema applicato con tanto successo da Veltroni all’Italia: la lotta contro il suo partito per affermare la propria indiscutibile autorità, facendo cadere il suo stesso governo, per andare alle elezioni con una coalizione “omogenea”, perdendole rovinosamente. Prima che il sistema dell’informazione trovi un nuovo beniamino da mettere a capo del Pd, suggeriremmo dunque di cambiare schema.
Dario Franceschini ci sta provando, e con risultati apprezzabili. A cominciare dal modello di partito: organismi dirigenti, democrazia interna, correnti. Ma ha mantenuto finora un’ambiguità di fondo. Dire che Veltroni si è dimesso a causa del “logoramento” cui sarebbe stato sottoposto dal resto del gruppo dirigente, come ha fatto più volte Franceschini nei giorni scorsi, non significa infatti dire soltanto una sciocchezza. Significa perpetuare l’equivoco che ha quasi ucciso il Pd. Se il problema fosse la “litigiosità”, allora avrebbero ragione i sostenitori del rinnovamento per il rinnovamento, che poi sono i primi avversari del nuovo segretario. Se il problema è semplicemente la “litigiosità” del gruppo dirigente, non resta che cambiare il gruppo dirigente. Ma è possibile prendere in considerazione una visione della politica come quella accreditata da Franceschini, che descrive il suo stesso partito come fosse un asilo d’infanzia, in cui tutti i problemi in sostanza si riducono al fatto che i suoi principali esponenti proprio non riescono a smettere di farsi i dispetti a vicenda? Se non il senso dell’opportunità, almeno il senso del ridicolo dovrebbe scoraggiare persino dal discuterne.
La ragione per cui nel pieno della più grave crisi economica mondiale da ottant’anni a questa parte, causata dalle politiche liberiste adottate negli ultimi trenta, a dimettersi non è il capo del governo di centrodestra ma il leader del principale partito del centrosinistra, nel caso non fosse ancora chiaro, non è il cattivo carattere dei dirigenti, né i complotti, le trame o il sabotaggio di nessuno, ma il semplice fatto che dal 2007 a oggi il Partito democratico di Veltroni ha lasciato che ad attaccare gli ideologi e i beneficiari di quelle politiche fosse il ministro Giulio Tremonti, mentre il Partito democratico li difendeva, quando non li candidava nelle proprie liste o non affidava a loro l’elaborazione del suo programma elettorale. Questa è la ragione per cui Veltroni, dopo avere annunciato la rottura dell’alleanza di centrosinistra, causato la caduta del governo Prodi e le elezioni anticipate, aperto un conflitto insanabile con tutte le forze alla sua sinistra, ha preso il 33 per cento alle elezioni politiche, e cioè circa un punto in più della lista Ds-Margherita nel 2006. E oggi lascia un partito che i sondaggi danno al 22 per cento, e ancora in guerra con tutte le altre forze di opposizione.
La più pesante responsabilità di Veltroni e dei veltroniani è però un’altra. E’ nel micidiale veleno che hanno instillato ogni giorno nel partito e nel suo elettorato, con l’idea che se il Pd perdeva malamente ogni elezione a cui si presentava, la causa non erano le scelte compiute, la linea adottata, il messaggio che si era voluto dare al paese. La colpa era delle quinte colonne annidate nelle file del partito. La causa erano i complotti, le trame, il sabotaggio. Il problema erano le correnti. Ma il divieto delle correnti è una caratteristica dei partiti leninisti, non dei partiti democratici. Quando il gruppo del Manifesto veniva radiato dal Pci per frazionismo – oggi diremmo “correntismo” – l’intera stampa nazionale attaccava il Pci per le sue pulsioni staliniste, non certo il gruppo del Manifesto per la sua opera di sabotaggio.
In un partito realmente democratico, che rigetti la concezione presidenzialista, personalistica e sostanzialmente proprietaria della politica che è stata alla base dell’intesa tra Berlusconi e Veltroni, e delle disgrazie del Pd, come altro dovrebbe determinarsi la possibilità di un reale ricambio dei gruppi dirigenti, se non attraverso le correnti? Attraverso le correnti, sissignore. Attraverso cioè la libera organizzazione di iscritti e dirigenti secondo diverse piattaforme politiche che possano confrontarsi in regolari congressi, a tutti i livelli, in un partito in cui i dirigenti siano così eletti dal basso, e non nominati dall’alto. La democrazia funziona in questo modo. E un partito come qualsiasi altro organismo democratico, se non funziona in questo modo, muore. Sta a Franceschini, pertanto, decidere se voglia essere il primo segretario di un partito realmente democratico, o semplicemente l’ultimo segretario del Pd.