La fioritura autunnale di opuscoli, articoli di giornale e commenti televisivi che ha fiancheggiato il governo irridendo l’ondata di proteste degli studenti è oggi ridotta a un cumulo di foglie morte. La settimana appena passata segna infatti l’archiviazione dell’argomento ricorrente di quella pubblicistica: l’idea che l’università sia virtuosa, in America, perché fondata sul contributo finanziario degli studenti, che sarebbe il solo strumento per selezionare il merito; mentre sarebbe corrotta in Italia perché fondata sulle risorse pubbliche. Comunque andranno le cose, infatti, l’alta formazione statunitense subirà cambiamenti profondi, e chi la vorrà prendere a modello dovrà almeno aspettare di capire cosa diventerà.
Lo scorso 17 febbraio, nel cosiddetto “Piano di stimolo all’economia”, la presidenza degli Stati Uniti ha inserito una misura straordinaria di sostegno al sistema formativo articolata in tre linee principali: aumento delle risorse per le scuole dei primi cinque anni di vita dei bambini (corrispondente ai nostri asili nido e scuole materne), aumento straordinario di 100 miliardi di dollari nel prossimo biennio delle risorse federali per il sistema formativo pubblico, e forte ampliamento di tutti gli strumenti pubblici di aiuto economico agli studenti nel pagamento delle rette di frequenza universitarie, che erano per tradizione una delle principali motivazioni al risparmio delle famiglie, e sono progressivamente diventate una delle cause maggiori del loro indebitamento.
Ma accanto alle misure strettamente economiche si assiste all’apertura di un fronte ideologico attorno alla scuola e all’università: il governo intende infatti combattere al meglio le numerose resistenze presenti nella società americana di fronte a un intervento pubblico di questa portata. Arne Duncan, il segretario al Dipartimento della formazione, visitando il 19 febbraio una scuola di Brooklin, ha motivato le decisioni prese affermando che “la via migliore per stimolare l’economia, a breve termine e a medio termine, è tenere i professori a insegnare e i ragazzi a studiare”. Lo stesso Barack Obama sembra voler fare della formazione uno degli argomenti principali del suo discorso pubblico: già lo scorso 14 gennaio, prima della nomina alla presidenza, nella lettera pubblica indirizzata alle figlie, aveva fatto riferimento all’ingiustizia costituita dalle rette universitarie, facendo capire che si preparava a una schermaglia politica contro la retorica della meritocrazia che le giustifica (è bene ricordare il fatto che negli Stati Uniti far studiare un figlio all’università costa a una famiglia circa 50 mila dollari l’anno). Martedì 24 febbraio, parlando alle camere riunite, il presidente ha spiegato che le misure già prese permetteranno a sette milioni di giovani, altrimenti esclusi, di accedere ai college; ma ha anche auspicato interventi che puntino in futuro a sostituire le rette universitarie con iniziative di volontariato per la comunità, fissando l’obiettivo per gli Stati Uniti di raggiungere di nuovo, nel 2020, la più alta percentuale di laureati al mondo: la lotta alla dispersione scolastica e all’iniquità sociale del sistema universitario sono quindi diventati un obiettivo nazionale. Nel discorso settimanale di sabato, dedicato al bilancio, ha inoltre evidenziato come un maggiore intervento pubblico per l’accesso all’università sia destinato a scontrarsi con gli interessi delle banche e delle grandi società di prestiti agli studenti. Del resto tutti sanno, ma nessuno dice, quanto negli Stati Uniti le rette universitarie siano importanti per il sistema finanziario: come recita una battuta di un film di Natale, in quel paese il mercato è un insieme di persone che si arrabattono per riuscire a far studiare i figli, e da lì inizia la catena alimentare che nutre la finanza. Non è un caso quindi se in settimana le società di prestiti per la formazione hanno scontato forti cali di quotazione per l’avvio delle nuove politiche federali.
Non è ancora chiaro quanto il programma del governo riuscirà a mutare il sistema formativo statunitense. Va segnalato però il fatto che la retorica della presidenza non è una trovata dell’ultimo momento, ma raccoglie un movimento di pensiero originatosi nei grandi atenei del paese, dove già da almeno due anni è stato rimesso in discussione l’assioma, accettato come indiscutibile negli ultimi tre decenni, secondo cui la qualità del sistema universitario sarebbe connessa con le alte rette di frequenza, per il meccanismo virtuoso di selezione del merito che queste innescherebbero. Al contrario si è evidenziato come proprio il progressivo indebitamento delle famiglie, e la conseguente crisi del credito, abbia fatto diminuire drasticamente le domande di ammissione, costringendo anche gli atenei più prestigiosi a scegliere gli allievi sulla base del loro reddito, e non dei loro risultati. Si è cominciato quindi a riflettere su come finanziare un sistema universitario accessibile a tutti.
Si tratta di un cambio di rotta su cui sarebbe bene ragionare anche nel nostro paese. Il bilancio della scuola italiana supera di poco i 30 miliardi euro, e il fondo con cui lo stato italiano finanzia annualmente il sistema universitario è di circa 7 miliardi di euro. La scorsa estate il nostro governo ha operato su entrambi i bilanci tagli che ammontano, per la scuola, a 8 miliardi di euro, e per l’università a più di 1 miliardo, giustificandoli come misure per contenere gli sprechi. Si è contemporaneamente aperta la possibilità per gli atenei di diventare fondazioni private, che per legge non hanno un tetto alle tasse studentesche, e quindi potrebbero essere finanziate grazie a un forte aumento delle rette di frequenza. Il movimento degli studenti, che ha protestato contro queste misure, è stato fronteggiato in particolare dai professori del Dipartimento di ricerche economiche dell’Università Bocconi, i quali in più sedi, accolti dai maggiori canali televisivi e quotidiani nazionali, hanno sostenuto la superiorità del sistema americano basato sulle alte rette degli studenti e su una larga presenza di università private, rispetto a quello europeo fondato sull’università pubblica con basse tasse di frequenza, e perciò corrotto. Tralasciamo di approfondire il tema dell’oggettiva convergenza tra il modello di università caldeggiato dalla Bocconi e gli interessi delle banche d’affari: rimandiamo per ora a quanto osservato sulla questione dal presidente degli Stati Uniti. Da queste poche righe si capirà perché il movimento studentesco dello scorso autunno sia riuscito a entrare in maggiore sintonia, rispetto ai suoi critici, con le necessità dei nostri tempi, e abbia costituito l’unico soggetto capace finora di mettere in difficoltà il governo nel suo primo anno di vita.