L’ipotesi che la scelta di non anticipare le primarie per l’elezione del nuovo leader sia stata un fatto positivo per il Partito democratico, e non solo una necessità dettata dall’imminenza delle scadenze elettorali, non è stata finora presa in considerazione né dagli osservatori, né all’interno del Pd.
Il timore di soluzioni pasticciate e continuiste, sia nella linea politica sia nella gestione del partito, motivava la posizione di quanti ritenevano che le primarie fossero il male minore. Ma il discorso di Franceschini ha in parte fugato questi timori. Vi era tuttavia un altro motivo, più di fondo, che consigliava di escludere la scelta del ricorso immediato alle primarie. Se infatti le sconfitte del Pd di Walter Veltroni (e di Renato Soru) nascono dall’illusione di sfidare Silvio Berlusconi sul terreno del leaderismo, è improbabile che il rilancio del partito possa coincidere semplicemente con l’elezione diretta di un nuovo segretario.
Così il fatto che la segreteria di Franceschini appaia come la scelta più lontana che si potesse fare dall’investitura di un nuovo capo carismatico, contrariamente all’opinione comune, può costituire un’occasione per il Pd. Un’occasione per abbandonare le scorciatoie e provare finalmente ad affrontare i tanti nodi irrisolti della costruzione del nuovo partito, sul piano culturale, programmatico e organizzativo. La scelta dell’«anti-leader» Franceschini può finalmente costringere il Pd a chiarire quale alternativa a Berlusconi intenda rappresentare al di là del candidato premier (visto, tra l’altro, che alle prossime elezioni politiche mancano più di quattro anni), ma di politica economica, rappresentanza sociale, concezione delle istituzioni, rapporto tra questioni bioetiche e decisioni legislative, politica estera, modello di partito e di partecipazione democratica. Diversamente, come ha osservato Pier Luigi Bersani, lo stesso congresso rischia di ridursi a uno scontro tra personalità e non a un confronto tra piattaforme politiche.
Vi è poi la possibilità che l’area popolare, esprimendo in questa fase la guida del partito, superi l’atteggiamento difensivo e tattico che, per molti versi, ha segnato finora la sua presenza nel partito. Durante la segreteria Veltroni, infatti, quest’area da un lato ha cercato di ottenere la massima rendita di posizione dall’appoggio al segretario, e dall’altro, per effetto della debolezza e delle incertezze della linea politica del partito, è stata spinta ad accentuare il proprio profilo identitario, rifluendo talora su posizioni (si pensi alla recente vicenda Englaro) che forse non sarebbero state ipotizzabili nemmeno ai tempi della Margherita. Non è un caso che Franceschini abbia potuto pronunciare dinanzi all’Assemblea nazionale, su alcune delle questioni più controverse, parole di una chiarezza che in tutti questi mesi non si era udita né da altri esponenti della sua area, né dallo stesso Veltroni. Si riapre così lo spazio per un vero confronto politico-culturale tra l’esperienza del cattolicesimo democratico e quella della sinistra riformista, che doveva costituire la matrice centrale della nuova cultura politica del Pd e che è stato fin qui eluso.
L’elezione di Franceschini può inoltre davvero segnare la fine dell’illusione dell’autosufficienza del Pd. Le dimissioni di Veltroni, infatti, hanno distolto l’attenzione da un’analisi più approfondita del voto in Sardegna. Pochi hanno osservato che il calo del Pdl rispetto alle politiche del 2008 (dal 42 al 30 per cento) non è stato inferiore a quello del Pd (dal 36 al 24), nonostante la massiccia presenza di Berlusconi. La differenza l’ha fatta, come ha sottolineato Roberto Gualtieri, la capacità del centrodestra di costruire un’alleanza larga (inclusiva di Udc, Partito Sardo d’Azione e liste di area socialista), in contrasto con la «vocazione iper-presidenzialistica» di Soru.
Da ciò si può trarre spunto per rimettere in discussione alcuni tabù che hanno preso forma nello statuto del Pd. È probabilmente giusto lasciare la scelta del prossimo segretario al voto delle primarie (anche perché è dubbio che nei prossimi sei mesi il Pd riesca a portare a termine un tesseramento corrispondente alle sue potenzialità). Molto più discutibile è che lo statuto imponga la coincidenza tra la figura del segretario e quella del candidato premier alle elezioni. Il caso di Veltroni dimostra che non necessariamente le qualità richieste dalle due funzioni si trovano nella stessa persona. Ma c’è di più. Per un partito che decida di fare una scelta anti-presidenzialista sia sul piano istituzionale che su quello dell’organizzazione interna, che punti sul rilancio e sul rinnovamento del modello parlamentare, e che voglia costruire sul serio una politica delle alleanze, l’obbligo della coincidenza fra le due figure costituisce una contraddizione e una dannosa camicia di forza. Forse, per provare davvero a fare il Pd, è davvero arrivato il momento di abbattere alcuni dei suoi falsi miti fondativi.