Sono passati ormai nove mesi da quando il Fondo monetario, davanti all’incedere della crisi, invitò i governi a un uso discrezionale della leva fiscale a sostegno della domanda aggregata. Da allora molte cose sono successe, e l’iniziale timidezza ha rapidamente lasciato spazio a iniziative di vario genere. Pure l’Europa, solitamente riluttante a impegni di questo tipo, ha deciso di mettere sul piatto 200 miliardi di euro (1,5 per cento del pil), cifra che tuttavia sembra assolutamente inadeguata rispetto a quanto già fatto dagli Stati Uniti (8,6 per cento) e dalla Cina (7,9).
Ma non si tratta soltanto di numeri: nonostante il protagonismo della presidenza francese, il tentativo di realizzare una gestione europea della crisi è sostanzialmente fallito. Quello licenziato dall’Ecofin non è un piano fiscale obbligatorio, ma semplicemente una proposta agli stati membri affinché realizzino pacchetti di stimolo dell’economia di cui si è stabilito solo l’ammontare complessivo e un elenco di voci raccomandate. La mancanza di un vero coordinamento a livello comunitario porta quindi con sé una totale incertezza sulla reale entità delle risorse mobilitate, che dipenderanno soprattutto dalle disponibilità economiche (e politiche) di ciascun paese. Ed è proprio su questo punto che sorgono i maggiori dubbi. Se la zona euro mostra nel suo complesso dati decisamente incoraggianti, diversa è la situazione a livello disaggregato. Non tutti, infatti, si potranno permettere interventi pari all’1,5 per cento del pil, se non al prezzo di uno sforamento dei limiti previsti dal patto di stabilità e crescita. E anche assumendo che i paesi a basso deficit spendano più della quota loro assegnata, essendo quasi tutti di piccole dimensioni, avranno effetti trascurabili sulla domanda aggregata europea. L’unica eccezione è costituita dalla Germania, che però ha già annunciato un piano pari solo all’1,1 per cento del pil. Insomma, il rischio concreto è che lo stimolo fiscale su scala europea si riduca a una cifra ancor più modesta di quanto previsto dall’Ecofin.
In questo scenario tutt’altro che roseo per l’Europa si inserisce quello decisamente più preoccupante dell’Italia. Se alcuni mesi fa il ministro Giulio Tremonti si era mostrato fra i più entusiasti sostenitori di un piano europeo di salvataggio delle banche (poi immediatamente abortito a causa del veto tedesco), a partire da novembre il suo atteggiamento si è fatto decisamente più prudente e autarchico. Non c’è stata occasione in cui il ministro per l’economia non abbia ribadito l’intenzione di rispettare i vincoli di Maastricht, mostrando un’ossessione quasi maniacale per il differenziale di rendimento fra titoli tedeschi e italiani. Date queste premesse, il piano presentato dal governo non poteva che essere di modesta entità: poco più di 6 miliardi di euro, pari allo 0,3 per cento del pil, dedicati per la quasi totalità a politiche di assistenza ai bisognosi e dove non trovano spazio stimoli apprezzabili ai consumi e agli investimenti. A molti osservatori è sembrato che Tremonti abbia puntato troppo su una politica fiscale espansiva della Germania in modo da guadagnare un aumento della domanda aggregata con un minore sforzo. Uno scenario su cui sembrava aver fatto affidamento pure la Francia, che si è scontrato però con le decisioni di tutt’altro tenore prese dal Bundestag la settimana scorsa.
Ma mentre Sarkozy ha reagito annunciando un massiccio piano straordinario che gli farà sforare largamente i parametri europei, il governo italiano si trova ora a fare i conti con chi spinge per seguire la strada francese, rafforzando l’azione anticrisi con un ulteriore pacchetto di aiuti a famiglie e imprese, e chi – atteggiandosi a persona responsabile – sostiene che si debba accompagnare lo sforamento del deficit con rapide riforme strutturali, in modo da rendere credibile la sostenibilità del nostro debito pubblico. Si tratta di posizioni che presentano però svantaggi sicuri e incerti benefici: non bisogna infatti dimenticare che la Francia presenta una situazione debitoria decisamente meno gravosa di quella italiana, che rende per noi assolutamente imprevedibili le reazioni degli investitori e quindi il costo effettivo di una simile operazione. D’altro canto, tentare di far fronte a questo problema percorrendo la difficile strada delle riforme strutturali (fra cui quella delle pensioni) rischia di essere, oltre che economicamente pericoloso, anche politicamente suicida, in una fase in cui il governo ha già diversi fronti aperti con le forze sociali su scuola, università e riforma dei contratti.
Stretto tra i due fuochi a Tremonti non resta che affidare il sollievo del sistema e il rilancio della domanda interna alle risorse che si potranno progressivamente liberare dal calo del prezzo delle materie prime energetiche (che garantirebbe risparmi sul costo del riscaldamento e del carburante) e dei tassi di interesse (che permetterebbe una riduzione delle spese per mutui e degli oneri sul debito pubblico); si tratta di benefici che, per potersi produrre, hanno bisogno di una seria aspettativa di stabilità finanziaria del bilancio nazionale, cosa su cui Tremonti sembra avere puntato tutte le proprie carte. Ed è davvero uno strano scherzo del destino che proprio all’inventore della “finanza creativa” sia toccato in sorte di dover sperare nella quadratura del cerchio con quella prudenza che era stata il marchio di fabbrica dei tanto criticati Prodi e Ciampi.