L’idea che i problemi attuali del Pd siano da imputare anzitutto al duello tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema gode oggi di un credito molto vasto. È un’idea semplice e accattivante, anche perché elementi di diversa natura convergono nel sostenerla: la tendenza alla personalizzazione dei processi politici che si è affermata nell’ultimo quindicennio anche in Italia; la connessa pigrizia intellettuale di settori sempre più ampi della pubblicistica politica; la rendita di posizione che da una tale rappresentazione ricava la componente interna degli ex-popolari; uno stato d’animo diffuso da tempo tra quella parte degli elettori di centrosinistra più sensibile alle sirene dell’antipolitica («questi dirigenti sono sempre gli stessi, non fanno altro che litigare e con loro non vinceremo mai»).
Il guaio è che questa diagnosi dei mali del Pd è puramente e semplicemente sbagliata. Peraltro, il Pd non è un malato immaginario e nei malati con problemi seri l’attardarsi in diagnosi sbagliate quasi sempre porta a conseguenze gravi. Se si prova a ragionare lasciando da parte la cronaca quotidiana, con i suoi infortuni e i suoi retroscena, è abbastanza evidente come il rilievo politico che tutti attribuiscono al dualismo tra Veltroni e D’Alema non sia la causa, ma piuttosto l’effetto del sostanziale fallimento, allo stato, del processo di costruzione del nuovo partito, quando è trascorso più di un anno dalle primarie del 14 ottobre 2007, un anno e mezzo dai congressi di scioglimento di Ds e Margherita e più di due anni dal famoso seminario di Orvieto, in cui la decisione di fondare il Pd fu assunta dai gruppi dirigenti dei due partiti.
Si tratta di un periodo non breve, che ormai rende poco credibile la tesi di quanti chiedono ancora tempo e pazienza. Né appare più convincente la tesi per la quale tutte le attuali difficoltà del Pd sarebbero da ricondurre alla sconfitta elettorale. Nel partito nessuno (a parte Arturo Parisi) ha imputato al segretario la sconfitta elettorale, anzi, quasi tutti i dirigenti hanno giudicato il 33 per cento e i dodici milioni di voti raccolti come l’aspetto di gran lunga più positivo nel primo anno di vita del Pd.
Il senso di crisi e di frustrazione che si vive nel partito, al centro come in periferia, ha radici più profonde, alcune perfino anteriori all’elezione di Veltroni. Gli storici del nostro sistema politico forse un giorno si interrogheranno sulla scelta di procedere a tappe forzate allo scioglimento dei due principali partiti di una coalizione che, nel frattempo, era impegnata a governare il paese con due voti di maggioranza al Senato, oppure sul significato di elezioni primarie in cui si elegge un’assemblea costituente di 2800 membri, ben presto esautorata di qualsiasi funzione a vantaggio di organismi più ristretti, non eletti ma nominati dal segretario sulla base di equilibri tra componenti che, per la maggior parte, non si sono presentate in quanto tali alle primarie.
Su questi errori e ipocrisie del processo costituente si è innestata l’azione di Veltroni dopo il 14 ottobre. Qui la vera distinzione da fare non è quella tra prima e dopo le elezioni politiche, ma tra il Veltroni candidato premier e il Veltroni segretario. Se al primo possono essere riconosciuti dei meriti oggettivi (la scelta di superare la vecchia alleanza dell’Unione, a parte l’errore dell’alleanza con Di Pietro, e una conduzione brillante della campagna elettorale, specie nella prima fase), il secondo presenta un bilancio ben più problematico. Dopo un anno dalla sua elezione a segretario, quali passi in avanti sono stati compiuti su nodi come la collocazione internazionale del partito, la definizione del suo profilo culturale, il rapporto tra centro e periferia, il ripensamento della funzione delle primarie e le modalità di selezione di dirigenti e candidati, il modello organizzativo, l’individuazione di una proposta coerente sulle riforme istituzionali ed elettorali, l’elaborazione di una posizione non subalterna sul tema del federalismo?
Al di là delle dichiarazioni dei suoi consiglieri, che indicano sempre nuove date cruciali per l’inizio della riscossa (prima il «nuovo film» annunciato da Goffredo Bettini dopo le conclusioni alla Festa di Firenze, poi la manifestazione del 25 ottobre, poi la vittoria di Obama, adesso il «Lingotto due» alla direzione nazionale di dicembre), è Veltroni stesso a non trasmettere la convinzione di volersi calare davvero nei panni del segretario di partito e di poter affrontare una traversata all’opposizione di quattro anni e mezzo. Forse è proprio il suo indubbio e spontaneo talento comunicativo a far trapelare la sensazione che egli avverte di trovarsi fuori ruolo, costretto in una parte che mortifica i suoi talenti e amplifica i suoi difetti.
Veltroni, dopo essere stato per anni il dirigente della sinistra italiana che con più carisma ha delineato la suggestione di un movimento progressista oltre la forma-partito della tradizione europeo-continentale, si trova ora a gestire il progetto di trasformare l’area elettorale dell’ex-Ulivo (di cui il Pd ha sostanzialmente ereditato il risultato) in una forza politica strutturata. Alla fine è questa la contraddizione di fondo da cui egli stesso non sa come uscire.
In questo quadro, la rivalità con D’Alema diventa il modo più semplice ma anche più mistificatorio per descrivere i difetti d’origine del Pd e la crisi della segreteria Veltroni. Se anche D’Alema fosse chiamato a un impegno che lo allontani dalla dialettica interna del Pd, c’è qualcuno che può seriamente pensare che i problemi del partito scomparirebbero o diventerebbero più facili da risolvere? Si può certamente discutere se la scelta di far partire il tesseramento a Red sia stata più o meno felice, ma è davvero difficile ritenere che l’interesse con cui da mesi si attende, fuori e dentro il Pd, un’iniziativa più esplicita di D’Alema sia il frutto dell’attivismo organizzativo della sua area e non piuttosto il sintomo di un malessere profondo nel partito.
Nei giorni scorsi, con insolita franchezza, Gianfranco Fini ha paventato per il nascente Popolo delle Libertà, in assenza di una vita democratica fondata su regole e strutture solide, i rischi di una leadership cesaristica, incline solo ad assecondare le spinte dell’opinione pubblica, ma incapace di guidarne gli orientamenti. Sarebbe ipocrita raccontarsi che il Pd abbia già risolto questo problema con il ricorso alle primarie. Per chi ancora crede che il consolidamento del Pd possa essere un fatto positivo per la democrazia italiana, è forse allora il caso di lasciar perdere i cliché giornalistici e di mettersi a ragionare con rigore sulle scelte politiche da compiere per recuperare il tempo perduto ed evitare il definitivo fallimento del progetto.