C’è la violenza, certo, quasi intollerabile eppure fumettistica al contempo, col sangue bianco e le silhouette pronte a censurare parzialmente le scene più raccapriccianti. C’è tutto il discorso sull’America desolata e randagia (che poi è il mondo intero). C’è l’eco della Gotham City e del Cavaliere Oscuro dello stesso Miller, come già aveva notato Francesco Cundari su queste pagine (vedi qui e qui). Però in Sin City mi è parso esserci anche dell’altro, ed è precisamente questo altro che ne fa un capolavoro del fumetto e un gran bel film.
C’è la grazia. C’è un ethos potente ed elementare (e potente in quanto elementare). C’è speranza in forma di disperazione, cioè una forma di speranza superficialmente nichilista e, appena sotto la superficie, commovente. Ci sono eventi minimi e semplici (una notte con una puttana profumata, una bambina di undici anni nelle mani di un maniaco, una cameriera sgallettata che vorrebbe solo non essere picchiata e umiliata dal suo uomo) e ci sono personaggi pazzeschi che prendono sul serio questi eventi e ne fanno il punto di leva per ribaltare le vite proprie e altrui. C’è persino un momento, centrale nel film, in cui uno di loro si pone la domanda decisiva di ogni atto morale: come so di avere ragione? Come so di non essere in errore nel giudicare? Marv, uno dei protagonisti di Sin City, non pone la domanda proprio con queste parole, anche perché in effetti la sua psiche è parecchio sgangherata e gli indizi per ritenere che sia lui, Marv, lo psicopatico assassino ci sarebbero tutti, ma il senso è più o meno quello. E il bello è che non si risponde. La sua risposta è l’azione. La sua volontà feroce non di vendetta, bensì di giustizia (perché l’unica possibile giustizia è lasciare che la bellezza – fosse anche nelle forme di una puttana profumata in un letto rosso a forma di cuore – possa accadere) lo porta a una vittoria che è identica a una sconfitta. Ma negli occhi, proprio nell’istante in cui la scarica elettrica dell’esecuzione lo toglie dal mondo, gli rimane l’immagine di quella notte, di quella puttana profumata. E lo stesso accade a Hartigan, il bellissimo personaggio di Bruce Willis: si fotta la carriera, si fotta la famiglia, si fotta la sua stessa vita, una bambina di undici anni è una bambina di undici anni (anche quando poi di anni finisce che ne ha diciannove) e un pazzo maniaco che vuole violentarla e poi farla a pezzi merita un’unica sorte: essere fermato, e poi evirato (due volte, addirittura) e infine ucciso. Punto.
Qualcosa del genere ce lo aveva già mostrato la Sposa di Kill Bill, che poi sarebbe meglio chiamare la Madre. C’è parecchia follia in tutto ciò. È una posizione insostenibile al di fuori del mondo dei film e dei fumetti (e infatti, ciascuno di noi, saggiamente e civilmente, si pone la domanda di Marv e, dandosi la risposta di Nietzsche secondo la quale “chi pensa profondamente sa di avere sempre torto, comunque agisca e giudichi”, rinuncia a comportarsi come Marv). È un mondo che funziona se a sparare, a squartare, a menar fendenti di katana sono loro, gli eroi che non sbagliano mai il bersaglio, nel senso che perlopiù ci azzeccano sia come mira che come individuazione del Male e del Cattivo. Evidentemente, stando a quel che scrive Nietzsche, per un eccesso di superficialità.
Noi, intanto, siamo giù in platea, con tutti i nostri ammortizzatori culturali, etici e politici e i nostri pensieri troppo profondi, che guardiamo e ci divertiamo e scuotiamo il capo e ripeschiamo categorie come “pulp” per disinnescare l’ordigno. Però alla fine ci commuoviamo per la sorte felice e sconsolata di Marv, per l’autodistruzione eroica di Hartigan, per il sorriso perfetto di Beatrix Kiddo finalmente abbracciata a sua figlia davanti ai cartoni animati. E ci piacerebbe, a noi che per fortuna non viviamo a Sin City, poter essere semplicemente, almeno una volta nella vita, così eticamente elementari. Così dannatamente semplici. Così eroicamente capaci di lasciarci travolgere l’esistenza da un fatto, che tuttavia ci trovi dritti in piedi ad aspettarlo.