Poche posizioni sono sembrate così indiscusse nel dibattito pubblico italiano dell’ultimo quindicennio come la tesi che la politica dovesse liberarsi di ogni residuo elemento ideologico. Il merito principale dell’ultimo libro di Natalino Irti (“La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica”) è rappresentato dalla sfrontatezza intellettuale con la quale questo luogo comune viene messo in discussione. Una sfrontatezza che solo la vera cultura può consentirsi senza scadere nel gusto puro semplice della provocazione.
Il libro si propone di riscattare il concetto di ideologia dalla sua connotazione negativa, risalente all’accezione di «falsa coscienza» utilizzata polemicamente da Marx. Irti sottolinea peraltro come un diverso significato di ideologia sia ricavabile nella stessa tradizione teorica del marxismo, dalle “Tesi su Feuerbach” fino alla definizione gramsciana del materialismo storico come «filosofia della prassi» («una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia»).
Ci si può certo chiedere se il termine ideologia sia oggi il più adeguato a rappresentare l’esigenza di un contenuto di pensiero, di una visione dell’uomo e del mondo che dia forma all’agire politico. Ma proprio la riabilitazione di un termine così ingombrante consente a Irti di rendere più esplicita la polemica contro «gli uomini politici del nostro paese che gareggiano nel dichiararsi non ideologici, anti-ideologici, post-ideologici» e contro quella «sorta di acquoso pragmatismo, un fluido trascorrere da uno ad altro tema, un prendere e abbandonare le cose, una quotidianità subito vissuta e subito abbandonata».
Irti è impietoso nel delineare i caratteri di nevrotica instabilità di questo pragmatismo post-ideologico: «Se il mondo ideologico era il mondo della memoria, dei vincoli di tradizione e di continuità, il pragmatismo è, per sua indole, il mondo dell’oblio: tutto si consuma di giorno in giorno; tra ieri, oggi e domani non c’è alcun legame. Il linguaggio politico si fa, esso stesso, pragmatico e giornaliero: dichiarazioni, interviste, smentite, pentimenti, abbandoni, ritorni. Nessuna direzione, nessun ‘verso dove’, che vincoli nel tempo la volontà, e sia spiegato e proposto agli elettori. Il tramonto delle ideologie, delle quali ci siamo sbarazzati con gioiosa impazienza, ha determinato la _solitudine intellettuale dell’agire politico_».
Le conseguenze di questo pragmatismo senza pensiero e senza durata vengono individuate nell’«occasionalismo», nel «frammentismo» e nel «trasformismo». La povertà di cultura politica produce una «crisi della convinzione», la quale diviene presto inevitabilmente «crisi dei vincoli di lealtà e fedeltà» («I gruppi si compongono e scompongono, gli individui trascorrono dall’uno altro, vanno e tornano, si pentono e si redimono», come è d’altra parte inevitabile se «consenso e dissenso sono ‘puntuali’, ossia legati a un effimero punto, a questa o a quella scelta»).
Irti non risparmia alla sua critica corrosiva neppure un’altra categoria molto in voga nell’ultimo quindicennio, il riformismo, dipinto come «l’anima ansiosa del pragmatismo» che, non potendo agire per «raggiungere il ‘dove’ proprio di una visione di vita», si riduce alla «quotidianità del fare che si nutre di altro fare». Irti cita Camus («Quando sono senza fede, gli uomini d’azione non credono a null’altro che al movimento dell’azione») per denunciare il vuoto di questo «riformismo attivistico». Negli anni scorsi altre voci si erano levate a sinistra per sottolineare i limiti di un riformismo definito di volta in volta «senz’anima», «dall’alto» o «tecnocratico», ma Irti mira qui a offrire una chiave di lettura più generale, filosofica verrebbe da dire, della debolezza culturale del riformismo italiano dopo il 1989.
Il titolo del libro deriva dalla tesi che la politica venga così schiacciata nella «tenaglia» fra le due potenze, «economia di mercato e fede religiosa, tecno-crazia e clero-crazia», che con la loro pretesa di universalità riempiono il vuoto lasciato dalle ideologie («almeno in Italia», sottolinea l’autore, con un inciso solo all’apparenza innocente).
Qui sarebbe interessante complicare l’analisi di Irti con un ulteriore interrogativo: davvero in Italia la rinuncia a ogni elemento ideologico ha riguardato in eguale misura entrambi gli schieramenti? Uno dei paradossi di questo quindicennio italiano è forse costituito dal fatto che proprio Berlusconi, apparso sulla scena come l’uomo del fare e del pragmatismo, abbia costruito uno schieramento capace di affermare progressivamente un’egemonia ideologica (sia pure di natura del tutto inedita) in larghi settori della società e che, proprio grazie a questo elemento ideologico-identitario, sia riuscito a mettere in secondo piano i fallimenti del suo “fare”, ovvero della concreta azione di governo. Esattamente ciò che non è riuscito al centrosinistra, che (in maniera più coerentemente anti-ideologica) ha legato per intero la sua fisionomia all’azione di governo nazionale e locale.
Si è molto insistito sulla radicale novità che il Pd dovrebbe rappresentare rispetto alla politica italiana ed europea, presentandosi come il primo partito dichiaratamente post-ideologico. Ma non sarebbe forse il caso di iniziare a non dare più per scontato questo assunto?