Sono un insegnante di 48 anni, insegno Filosofia e Storia al Liceo Scientifico di Mercato S. Severino (SA). Nel 1991 lavoravo a Treviglio, da insegnante precario con nomina annuale, ed era un periodo molto duro per me, perché la mattina ero a scuola e il pomeriggio dovevo studiare per la prova orale del concorso ordinario, bandito l’anno precedente. Avevo appena il tempo di pranzare al volo e mi rimettevo a studiare, fino a notte fonda. Ma tra il pasto e lo studio, mi rilassavo con la lettura del quotidiano: ho sempre avuto un’insana passione per l’odore di stampa. In uno di quei giorni, su Repubblica, lessi un articolo di Alberto Ronchey che diceva più o meno che la scuola andava male anche perché gli insegnanti entravano tutti ope legis.
Beh, addio rilassamento. Piuttosto un travaso di bile, di quelli tipici da maltrattamento. Quel pomeriggio non riuscii a studiare: di concorsi ordinari ne avevo già fatto uno, bandito nell’85 ed espletato nell’87, l’avevo fatto a Milano, e l’avevo superato anche con un buon voto. Ma i posti di filosofia erano pochi, e rimasi perciò in attesa che lo scorrimento della graduatoria mi riguardasse, quando venne bandito il successivo concorso, quello del ’90 appunto, che però automaticamente annullava le graduatorie del concorso precedente. E quindi: tutto da rifare. Anche stavolta l’avrei fatto in Lombardia, ma in Materie letterarie, dove c’erano più posti.
Studiare era dura anche psicologicamente, perché, all’epoca in cui lessi quello sciagurato articolo di Ronchey, avevo già sostenuto le prove scritte, ma i risultati sarebbero stati resi noti solo una settimana prima dell’inizio degli orali e dunque bisognava studiare alla cieca, non sapendo se lo scritto fosse stato superato. E si trattava di studiare per mesi e mesi: passò esattamente un anno tra lo scritto e l’orale. La selezione fu brutale: più del cinquanta per cento non passò lo scritto, e anche all’orale non scherzarono, ma per fortuna mi andò bene.
Insegnai per qualche anno Materie letterarie, poi chiesi e ottenni il passaggio a Filosofia e Storia, avendo l’abilitazione per tale materia, per effetto del superamento del precedente concorso di cui le ho detto, quello dell’85.
Ed eccomi qui: da quel giorno sapesse quante volte ho sentito la storia degli insegnanti entrati ope legis, ma nel frattempo sono diventato anche uno studioso della persistenza dei luoghi comuni, per cui so bene che è impresa titanica liberarsene, e il travaso di bile ora non mi viene più. In questi anni di insegnamento, ho spesso adottato il suo bel testo “L’orda”, facendolo leggere agli studenti integralmente, e commentandolo puntualmente in classe. Con esiti soddisfacenti, direi.
Ora comprerò il suo “La Deriva”, ma con una punta di scetticismo, dopo aver letto, sul Corriere della Sera del 14 maggio, un suo articolo in cui dice, testualmente: “Dio solo sa quanto abbiamo bisogno del ripristino del merito in una scuola in cui da tempo immemorabile i maestri e i professori non vengono assunti per concorso ma di sanatoria in sanatoria, a partire da quella del 1859”.
Voglio anche ricordarle che oltre ai concorsi di cui le ho parlato ce ne sono stati altri, uno sicuramente nel 2000, e che la questione non è più tanto di attualità perché ora si entra nella scuola attraverso la SICSI, una scuola di specializzazione che dura due anni, più o meno come si fa, credo, in altri paesi europei.
Le ripeto che comprerò il suo libro “La Deriva”, ma le ripeto anche che lo leggerò in modo più sospettoso, perché un giornalista che dice un’inesattezza (e grossa) una volta, è più facile che la dica altre volte. Un po’ mi ha deluso, gentile Gian Antonio Stella, anche perché dare fiato ai luoghi comuni, ne converrà, è cosa un po’ avvilente.
Distinti saluti
Lucio Sessa