Ho passato l’ultima mezz’ora a discutere del braccialetto e della mia incapacità di comprendere perché sia proprio quella la cosa che farà perdere il ballottaggio a Rutelli (voglio dire: a me sembrano più gravi le gigantografie in cui molesta le vecchie sui tram – vecchie senza braccialetto, perdipiù), quindi non aspettatevi un’analisi compiuta della sconfitta. Io al massimo posso fornirvi i puntini, poi a unirli dovete pensarci voi. E fatemi sapere che disegno ne esce alla fine.
Nell’estate del 2006 intervistai Jovanotti. Ci dicemmo, come sempre accade, molte più cose di quante ne riuscirono a entrare nell’articolo pubblicato. Due di queste, in particolare, mi sono tornate in mente in questi giorni. Il pretesto dell’intervista era un libro fotografico sulla sua carriera, ma quello era l’anno di Mi fido di te, che allora nessuno immaginava sarebbe, due anni dopo, diventata l’inno del Pd. Tutti, intorno a me, dicevano che Mi fido di te era la più bella canzone che Lorenzo avesse mai scritto. Io, che sono sempre brava a fare amicizia con l’intervistato, pensai bene di dirgli che tanto un disco bello come quello del 1994 (quello di Penso Positivo e Serenata Rap, per capirci) non gli sarebbe venuto mai più, e quindi perché non ritirarsi a vita privata. Lui, che oltre che fortunato è un ragazzo educato, invece di cacciarmi a calci da casa sua si mise lì a spiegarmi che cose buone ne poteva ancora fare, che il nuovo disco era bello, e che Mi fido di te era un buon pezzo. Mi disse due cose, di quella canzone. E tutte e due – l’ho capito solo oggi, con due anni di ritardo – hanno a che fare con un libro di cui avevamo parlato poco prima e con le elezioni che ci sarebbero state diciannove mesi dopo.
Il libro s’intitola Non pensare all’elefante!, ed è un breve saggio sulla comunicazione politica che verte sulla teoria del framing e del reframing, ovvero del fotogramma decisivo, della frase chiave, della sintesi efficace che riposiziona il dibattito, cambia la prospettiva di chi guarda e in definitiva ti fa vincere le elezioni. La destra repubblicana, si spiega nel libro di George Lakoff, le ha vinte quando ha avuto l’intuizione di definire i tagli fiscali come “tax relief”. Nelle due settimane trascorse dalle elezioni, quelle in cui tutti, intorno a me, trasecolavano perché davvero non si capiva come il grande Partito democratico potesse aver perso contro uno che diceva “vi levo il bollo”, ho avuto la tentazione di volantinare fotocopie del libro di Lakoff in giro (non l’ho fatto solo perché l’unica copia che possiedo ha la prefazione di Howard Dean, e mi sembrava quindi difficilmente spacciabile come esempio vincente).
Il primo framing in ritardo di due anni mi ha folgorato l’altroieri, quando ho visto il video che Diego Bianchi (da quel momento estromesso dalla mia personale Accademia dei Sopravvalutati, nella quale aveva fin lì avuto un posto fisso, ed eletto elzevirista di riferimento) ha girato sotto al palco del comizio conclusivo di Valter Veltroni. Se esistessero ancora le Frattocchie, io quel video lo farei studiare. Oltre che a deprimermi, a me è servito da framing dell’inno. Quell’inno del quale l’autore, due anni fa, a domanda sulla ragione per cui la canzone piacesse tanto ai bambini, disse che probabilmente era merito della filastrocca insensata, di quel catalogo senza logica. Io annuii convinta. Poi però… Chissà se Lorenzo l’ha visto, il video di Bianchi. Chissà se anche a lui farebbe l’effetto reframing che ha fatto a me: “cani randagi, cammelli, re magi” non era un repertorio onirico, era esattamente quel che c’era sotto e sopra il palco. Cani randagi, cammelli, re magi, e dirige l’orchestra il maestro Vince Tempera.
La seconda cosa che il Cherubini mi disse della sua canzone mi è venuta in mente poco fa. Quando Veltroni la scelse come inno pensai che tutto quel che c’era da dire l’avesse detto uno dei pochi giornalisti brillanti che conosco, Paolo Ferrandi: “Walter, io mi fido di te, ma tu cosa sei disposto a perdere? A parte le elezioni, intendo”. Mi ero concentrata sulla beckettiana scelta di un inno di partito che chiedesse a chi doveva prendersi il disturbo di votarlo cosa fosse disposto non a guadagnarci ma a perderci (un po’ come se a “vi levo il bollo” avessero contrapposto “e noi invece ve lo raddoppiamo!”). E invece il frame essenziale era un altro. Me lo aveva raccontato l’autore, e mi è tornato in mente solo ora. Il frame da cui era partito per scrivere quella canzone era uno slogan da disaster movie americano, di quelli che accompagnano le evacuazioni dei palazzi in fiamme mentre lì fuori Bruce Willis salva il mondo: “This is not a test”. Ovvero, tradotto in italiano e ripetuto pari pari nella canzone che VV ha voluto far sua, “Questa non è un’esercitazione”.