“Di chi dobbiamo avere più paura, babbo – domanda oggi la figlia di Bobo sulla prima pagina dell’Unità – di Montezemolo che attacca i sindacati o della Lega che li difende?”. Nel volto stupefatto del padre c’è tutto lo smarrimento del militante democratico. E anche del fedele lettore dell’Unità, che su quelle stesse pagine, a due giorni dalle parole di Luca Cordero di Montezemolo, non ha ancora trovato una sola replica da parte di Walter Veltroni, né di nessun altro dirigente del Pd. Unica eccezione: Franco Marini – a titolo, presumiamo, di ex segretario della Cisl – con una battuta arrivata nel tardo pomeriggio di ieri, dopo che giornali e telegiornali avevano aperto sulla notizia dello scontro tra Montezemolo e Lega. E poi dicono che i leghisti prendono i voti degli operai.
Nel frattempo, mentre Massimo Calearo spiega che quello di Montezemolo è stato solo uno sfogo e Giulio Tremonti critica le proposte del governatore della Banca d’Italia sulla crisi del credito, il fior fiore del gruppo dirigente democratico del Nord partecipa con impeto al dibattito lanciato da Paolo Mieli e da Ezio Mauro sulla necessità di applicare la devolution anche al Pd, varando un improbabile Partito democratico settentrionale, o giù di lì. Un bravo cronista, a questo punto, correrebbe a intervistare Pietro Folena, che nel 2000 l’allora segretario dei Ds Walter Veltroni mise a capo di un solenne coordinamento del Nord (chi volesse può cliccare qui, sul sito di Radio Radicale, per ammirare lo straordinario documento audiovisivo della sua prima riunione, otto anni fa). Perché davvero in questa nuova stagione tanto celebrata dai direttori dei grandi giornali, e così poco apprezzata dagli elettori, non c’è proprio nulla di nuovo. Come titolo, per l’intervista a Folena, suggeriamo una citazione: “Le stesse cose ritornano”. L’allora segretario dei Ds, alle successive elezioni del 2001, avrebbe infatti proclamato la necessità di presentare l’Ulivo da solo, rompendo con Rifondazione comunista a sinistra e con l’Italia dei Valori a destra, consegnando a Silvio Berlusconi la più larga maggioranza della storia repubblicana (fino a quel momento) e annichilendo Rifondazione, che riuscì a eleggere appena una manciata di parlamentari. Il secondo tentativo, va detto, è riuscito anche meglio, da tutti i punti di vista. Ma al fondo, come si vede, la sostanza non cambia: le stesse cose ritornano.
E ritorna la domanda innocente della vignetta: di chi dobbiamo avere più paura? Il risultato delle elezioni dimostra che la candidatura di Walter Veltroni è stata persino più infelice della candidatura di Francesco Rutelli nel 2001: non solo Veltroni non ha effettuato alcuna rimonta, non solo non ha strappato al centro o al centrodestra un solo voto, ma ne ha addirittura ceduti, compensando le perdite a spese della Sinistra Arcobaleno. Il futuro premier ringrazia sentitamente. E infatti è ansioso di riabbracciare il suo avversario per condurre in porto quelle riforme istituzionali, elettorali e regolamentari sulle quali avevano già raggiunto un accordo di massima prima delle elezioni. Resta solo da capire di quali riforme si parla.
E’ ormai divenuto un ritornello – da parte del Pd come del Pdl – che la riforma della legge elettorale debba essere fatta contestualmente alla riforma delle istituzioni e dei regolamenti parlamentari. Per evitare il referendum, però, la riforma della legge elettorale va fatta entro l’anno prossimo. Goffredo Bettini, in un’intervista al Foglio, torna a ripetere che “la vera questione è quella che riguarda le riforme istituzionali… avevamo raggiunto quasi un accordo in Parlamento e anche con Berlusconi. Se poi ci dovessero essere ulteriori passi in avanti in direzione del modello francese, per noi va benissimo. Il nostro modello di riferimento è questo”. E il modello francese, tutto compreso, si chiama semipresidenzialismo.
D’altra parte, le elezioni hanno certificato al di là di ogni ragionevole dubbio che contro Silvio Berlusconi, quale che sia la legge elettorale, Walter Veltroni non vincerà mai. Tutti sanno però che Berlusconi da tempo non ha più gran voglia di fare il presidente del Consiglio, mentre avrebbe grandissima voglia di fare il presidente della Repubblica. Se adesso si avviasse una bella riforma istituzionale, trasformando la nostra repubblica parlamentare in una repubblica semipresidenziale – come sembra dire Bettini – non c’è ragione di dubitare dell’entusiastico sostegno del Pdl. E una volta varata la riforma, si può immaginare quali pressioni si scatenerebbero immediatamente su Giorgio Napolitano, per spingerlo alle dimissioni. Dunque si potrebbe evitare il referendum pendente sul 2009 e andare al voto per il nuovo presidente della Repubblica – insieme capo dello stato e capo del governo, almeno in caso di maggioranza a lui “omogenea” – già nel 2010. E per sapere chi vincerebbe, stavolta, non c’è davvero bisogno di ricorrere a nuovi sondaggi. Ce n’è già pronto uno affidabilissimo, sottoscritto da alcuni milioni di elettori nelle urne del 13 e 14 aprile.
Con ogni evidenza, si tratta di uno scenario tanto inquietante quanto improbabile. Se non altro perché Berlusconi può evitare il referendum nel 2009 semplicemente estendendo anche al Senato il premio di maggioranza nazionale previsto per la Camera – come si è già detto intenzionato a fare – o con qualche altra piccola modifica di tal genere che eviti obiezioni di costituzionalità. In questo caso, certo il più probabile, la riforma se la farebbe con la sua larga maggioranza, senza bisogno di coinvolgere nessun altro. E senza nemmeno bisogno di scomodare Gianni Letta, che pure Bettini, nell’intervista già citata, non cessa di elogiare con parole curiose. “Siamo due persone – dice il coordinatore del Pd – che amano molto, quando si dà la parola, mantenerla o che, se non la si può mantenere, lo si dica in faccia. C’è tutto un codice tra di noi”.
Non conosciamo il codice e nemmeno aspiriamo a conoscerlo, dunque non cercheremo di decrittare le parole di Bettini. Ma se davvero il piano di Veltroni per accelerare i tempi fosse quello di proporre a Berlusconi una riforma semipresidenziale, così da tornare a votare tra due anni per il Quirinale e subito dopo per Palazzo Chigi – magari immaginando così di poter battere più facilmente un centrodestra orfano del suo leader e già sazio del Colle più alto – ebbene, per rispondere alla domanda da cui eravamo partiti, è fin troppo chiaro di chi dovremmo avere paura.