Lo scoglio della proposta presidenzialista attende il Partito democratico sul cammino delle riforme, nel mezzo di una difficile strettoia: da un lato un girotondismo sempre attivo e pronto alla scomunica di qualsiasi dialogo, dall’altro la tentazione di rifuggire da un’attenta disamina della sconfitta elettorale, imboccando la scorciatoia di un accordo a due con il Pdl, per imprimere un indirizzo definitivamente plebiscitario all’assetto politico uscito dalle urne.
Si può star certi, infatti, che la proposta presidenzialista sarà tra le opzioni prese in esame. La Seconda Repubblica finisce con la stabilizzazione di tre dei caratteri che ne avevano annunciato l’avvio nel 1994, a lungo considerati come semplici manifestazioni di protesta, tipiche di una fase di transizione: un considerevole spostamento a destra del baricentro politico del paese, l’organizzazione dell’intero campo moderato sotto la direzione di Silvio Berlusconi e la forte affermazione della Lega Nord.
Certo, molta acqua è passata sotto i ponti negli ultimi quattordici anni: Forza Italia, il partito azienda, si è trasformato in una forza politica vera, sia pure ancora allo stato nascente, rappresentante italiano del Partito popolare europeo; la Lega non è più una teppa di arruffapopolo, ma un partito radicato, con un gruppo dirigente, che esprime una politica e anche una certa capacità di amministrazione, dove governa localmente; gli antichi giovani di Almirante, che ancora all’inizio degli anni Novanta si salutavano col braccio teso, cercano ora di sfruttare con umiltà l’occasione del Popolo della libertà per essere finalmente ammessi nel salotto buono dei moderati europei.
L’istituzionalizzazione dei soggetti politici della destra italiana non spiega però interamente il loro successo; potrebbe essere anzi considerata come l’effetto, e non come la causa, delle mutazioni profonde attraversate dall’Italia in questa stagione. E’ il paese che ha voluto essere governato da queste forze, e loro, volenti o nolenti, si sono dovute trasformare in partiti di governo credibili.
Il fronte opposto dello schieramento presenta cambiamenti anche maggiori. Non inganni la straordinaria somiglianza nel modo in cui ha affrontato le campagne elettorali del 1994 e del 2008, e il risultato quasi identico del Partito democratico di oggi (33,1%) e della gioiosa macchina da guerra di allora (34,3%). Ci sono due profonde differenze tra la situazione odierna e quella del marzo 1994: per prima cosa allora i due schieramenti maggiori erano divisi da un forte partito centrista, ben più forte dell’attuale Udc, e cioè il Partito popolare guidato da Mino Martinazzoli, che ottenne più dell’11 per cento dei voti (e superava il 16 assieme al Patto Segni). Le sinistre poterono quindi compiere un brusco cambiamento di linea e imbastire una strategia delle alleanze con cui rovesciare i rapporti di forza; cosa che avvenne, grazie anche all’aiuto “esterno” della Lega, già a partire dal 1995. Oggi invece i due milioni e mezzo di voti che separano dagli avversari il piccolo centrosinistra, costituito da Pd e Italia dei Valori, non sono colmabili nemmeno sommando il risultato dell’Unione di Centro.
Oltre tutto il mancato superamento degli sbarramenti da parte delle forze della Sinistra Arcobaleno, che negli ultimi quattordici anni hanno stabilmente rappresentato circa quattro milioni di votanti, rende una grossa fetta della società italiana priva di riferimenti politici. La lunga opera di istituzionalizzazione di questo elettorato compiuta negli anni scorsi si è bloccata d’improvviso. Ed è probabile che la disaffezione o la radicalizzazione di una parte consistente di questi costituirà per un certo tempo uno svantaggio del centrosinistra.
L’elemento positivo è costituito dal nuovo Partito democratico. O meglio, dalla speranza di costruire un nuovo partito, cosa che al momento non è ancora avvenuta. L’alternativa alla destra italiana, insomma, non è più impastoiata nel post-comunismo e nel trauma della diaspora cattolica e potrà costituire in futuro un’offerta politica molto più appetibile.
L’attuale semplificazione del sistema politico, però, ha prodotto finora un bipolarismo asimmetrico: malgrado, in apparenza, vi siano due grandi partiti alternativi, il governo non è veramente contendibile, perché uno dei due è strutturalmente avvantaggiato sull’altro per le sue dimensioni, per i suoi legami con la società e perché può contare su un alleato forte come la Lega.
Silvio Berlusconi sa che può perpetuare l’asimmetria mettendo il tassello mancante al compimento in senso moderato della transizione: l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Carica alla quale, ovviamente, aspira. E a cui sa di poter difficilmente arrivare mediante un voto parlamentare alla scadenza dell’attuale settennato. Questa intenzione non si è ancora manifestata in modo aperto, ma la si può leggere in controluce nelle parole dei principali protagonisti di un dialogo istituzionale finora assai irrituale. Da ultimo, nell’intervista rilasciata oggi al Foglio da Goffredo Bettini (“Se ci dovessero essere ulteriori passi avanti in direzione del modello francese, per noi va benissimo. Il nostro modello di riferimento è questo. E’ il francese. Ed è un modello che a mio avviso unisce il Pd”).
Il centrodestra ha il 46,8 per cento del consenso popolare e la maggioranza assoluta nelle due Camere. Non raggiunge però i due terzi, soglia necessaria a una modifica costituzionale che non debba essere scrutinata da un referendum popolare. Ha quindi bisogno dei voti dell’opposizione per imprimere una svolta ulteriore all’assetto politico istituzionale. Di qui l’immediato rilancio del dialogo per le riforme.
Il Partito democratico fa bene a discutere con il Pdl, ma dovrebbe anche impostare un dialogo pubblico, aperto a tutti gli attori della politica e della società italiana, avendo ben presente la differenza che passa tra un parlamento eletto con il sistema maggioritario (per di più con evidenti amputazioni) e un’assemblea costituente eletta con il proporzionale e rappresentativa di tutto il popolo. E’ la differenza che passa tra un dibattito costituente e una trattativa privata.
Ma il Pd, innanzitutto, non può intraprendere tale sfida, il difficile dialogo e le necessarie mediazioni, se prima non definisce quali sono le sue intenzioni costituenti. Il rifiuto del presidenzialismo è un assunto non negoziabile, non solo per ragioni di convenienza, ma anche di cultura politica, oltre che per il valore dell’attuale Presidenza, di cui va difesa la scadenza naturale.
Il gruppo dirigente attuale su questa materia è stato da sempre ambiguo: prima con la proposta veltroniana del “Sindaco d’Italia” e con la propensione referendaria, poi rispolverando per bocca di Dario Franceschini, alla vigilia del voto di fiducia che ha fatto cadere il governo Prodi, un’antica propensione per il doppio turno elettorale in modo da attribuire, retrospettivamente e in modo furbesco, un carattere “di bandiera” al modello semipresidenziale francese; oggi, infine, con le dichiarazioni di Bettini.
Se di fronte alla durezza di una sconfitta apparentemente irrimediabile l’attuale gruppo dirigente si lasciasse tentare dal miraggio che gli prospetta l’avversario, quello di una definitiva bipartizione dello spettro politico e di una rivincita ravvicinata sotto forma di campagna per la prima elezione presidenziale, trasformerebbe la sconfitta nelle urne di un leader e del suo disegno in uno sconquasso nazionale. E’ una deriva, lo diciamo sommessamente, che andrà combattuta aspramente in seno al Pd.
Il presidenzialismo è invece sfidabile. Sull’avversione a quel modello si può unire la più ampia coalizione mai vista (da Rifondazione alla Lega, passando per Pd e Udc) superando il risentimento che si è creato a sinistra e offrendo un terreno di convergenza costituente al cattolicesimo moderato e alla matrice popolare della Lega. Il rischio che si produca una tale convergenza e la minaccia del referendum popolare sono deterrenti sufficienti per impedire a Berlusconi di mettere mano a un simile progetto senza l’avallo di Veltroni e del gruppo dirigente del Pd.
E’ dunque una guerra di trincea quella che attende il Partito democratico. Un partito ancora in embrione, ma che qui può ritrovare se stesso, la sua funzione nazionale e i suoi alleati, se saprà imboccare la strada che porta l’Italia verso una vera democrazia di stampo europeo, fondata su partiti in carne e ossa, democratici, realmente alternativi e in grado di aspirare al governo del paese.