Nuestra es la culpa

Nel piccolo spazio che si apre tra la campagna elettorale appena conclusa e la proclamazione del risultato ancora da scrivere – in questo breve tempo sospeso, pertanto, tra la propaganda e la propaganda – forse è possibile dirsi alcune semplici verità, che nessun risultato potrà smentire.
Chiunque sarà il vincitore, è difficile resistere all’impressione che ci troveremo dinanzi a un ultimo giro di giostra, più che all’inizio di un nuovo ciclo. E questo vale per tutti, ma proprio tutti, i protagonisti sulla scena. E vale anche per l’esercito degli aspiranti monarchi, delfini e regicidi. Perché poi, se solo ci si guarda intorno con un po’ di serenità e senza farsi trascinare dalle passioni dello scontro politico, si capisce che in Italia, ormai, è rimasto ben poco cui aspirare.
Piccoli segni rivelatori si sono intravisti qua e là, basta metterli in fila. Stavolta, per esempio, nessuno sembra imputare a Walter Veltroni di avere destabilizzato il governo Prodi, muovendosi di concerto con Fausto Bertinotti per arrivare a quella “separazione consensuale” tra Partito democratico e Sinistra Arcobaleno di cui pure i giornali hanno scritto. Dopo l’autunnale intervista del presidente della Camera, in cui si diceva senza mezzi termini che il centrosinistra aveva fallito; dopo l’annuncio della volontà di presentare il Pd da solo alle successive elezioni da parte del suo segretario, alla vigilia di un delicato voto in Senato – annuncio doppiamente dirompente, per il merito e per il sottinteso: l’imminenza di nuove elezioni – dopo tutto questo, la caduta del governo e la spaccatura del centrosinistra sono state accolte in modo assai diverso da come furono accolte dieci anni fa, quando cadde il primo governo Prodi. A protestare sono rimaste solo le vittime predestinate dell’accordo tra Veltroni e Bertinotti, e cioè i loro avversari interni: i sostenitori di Prodi nel Pd e i partiti, movimenti e dirigenti concorrenti di Rifondazione all’interno della Sinistra Arcobaleno. Ma ben presto la logica implacabile della campagna elettorale ha costretto tutti a chiudere la bocca, per fare buon viso a cattivo gioco.
Altri, all’interno del Partito democratico, da Massimo D’Alema a Franco Marini, da Francesco Rutelli a Pierluigi Bersani, hanno dovuto scegliere tra accodarsi e mettersi ai margini, per non finire dalla parte del giaguaro. E così, senza avere fatto nulla per meritarselo, Silvio Berlusconi ha avuto finalmente l’occasione di realizzare il suo più grande sogno: sbattere fuori l’Udc e assorbire An. Anche qui, la logica implacabile della campagna elettorale ha costretto persino i più renitenti a schierarsi dalla parte del Caimano.
Sarebbe però ben singolare se proprio chi, come noi, ha sempre contestato la ricostruzione complottistica, personalistica e sostanzialmente impolitica della vicenda del ’98, si mettesse ora a gridare allo scandalo per la caduta del governo Prodi e la rottura del centrosinistra. Anche perché sarebbe il solo a gridare. E questo silenzio dovrebbe pur dirci qualcosa.
Forse si spiega anche così il paradosso ipotizzato qui da Roberto Gualtieri. Il paradosso di un Partito democratico che si sposta come non mai al centro, per non dire a destra, sottraendo voti alla sua sinistra. Se così sarà, avranno motivo di protestare gli esponenti, i militanti e gli elettori della Sinistra Arcobaleno, non certo quelli del Pd. E se la caduta di Prodi è stata accolta come è stata accolta – e prima di tutto da militanti, vecchi e nuovi elettori del Partito democratico – cosa si potrebbe rimproverare a Veltroni? Il re era già nudo.
Se la scelta di rompere il centrosinistra sarà premiata dagli elettori, il segretario del Pd potrà sostenere a buon diritto che quella strada era obbligata, perché il nuovo partito non avrebbe potuto nascere senza un atto di rottura (e lo dice chi, personalmente, quella scelta non ha condiviso e continua a non condividere). E se anche il Partito democratico dovesse prendere meno voti della lista dei consumatori, l’esigenza di tracciare un severo bilancio dei propri errori di valutazione, limiti culturali e debolezze di analisi non si porrebbe solo al segretario del Pd, ma pure a chi, come noi, ha sostenuto fino all’ultimo una strategia che alla prova dei fatti si è dimostrata velleitaria, tanto da crollare su se stessa al primo cambio di vento. Prima dell’arrivo di Veltroni, infatti, anche noi abbiamo ceduto all’idea che per costruire finalmente un grande partito riformista, politicamente e culturalmente autonomo, occorresse scendere a compromessi con una certa retorica della società civile, prestando il nostro devoto omaggio allo spirito dell’Ulivo, allo spirito del maggioritario e allo spirito del tempo. Anche noi ci siamo inchinati alla religione del bipolarismo e a tutti gli idoli della saggezza convenzionale degli anni Novanta, che pure criticavamo. Anche noi, insomma, abbiamo dato il nostro piccolo contribuito a dissodare il terreno da cui sarebbero zampillati partiti liquidi, leadership più o meno carismatiche, nuove ubriacature referendarie e giustizialiste. Le conclusioni si trarranno all’indomani del voto. Il modo in cui a questo voto siamo arrivati, però, assomiglia molto a un contrappasso. Ma per questa discussione ci sarà tempo e luogo.