E’ possibile che le elezioni del 2008 rappresentino una svolta. Che la svolta sia epocale è però lecito dubitare, se non altro perché la frequenza con la quale si annunciano le svolte epocali in Italia è tale da far dubitare del concetto stesso di epoca. Soccorre piuttosto un’altra celebre immagine di Aristotele. Il quale, per spiegare come nascano nelle teste degli uomini i concetti, ricorreva all’esempio di quell’esercito in rotta, i cui uomini fuggono disordinatamente in ogni direzione, finché qualcuno non si arresta, anche solo per guardarsi intorno. Quel che accade in seguito è che altri comincino a fermarsi intorno a lui, senza sapere bene perché, spesso con motivazioni diverse. A poco a poco, però, attorno a quel primo nucleo di uomini si ricostituiscono le file dell’esercito. Se l’immagine riesce calzante, forse è perché da un quindicennio a questa parte è difficile indicare l’_ubi consistam_ della politica italiana. Si vedono eserciti in rotta – o, meno pessimisticamente, un lento e forse inevitabile smottamento – ma non si vedono i punti intorno a cui riordinare lo spazio politico. Quei punti sono concetti, sono cioè i modi e le regole con cui la politica conta di avere presa sulla società italiana. Chi abbia in testa simili concetti, tra i protagonisti dell’attuale panorama, è difficile a dirsi. Il Partito democratico ha effettivamente ridisegnato i termini del confronto politico in Italia, ma è presto per dire se, grazie a questo, tali termini abbiano trovato quella effettiva consistenza di cui il paese ha bisogno. Per il momento, sembra prevalere l’idea che il paese non ne abbia affatto bisogno, e che la novità sia rappresentata anzitutto dal fatto che siano stati liquidati i vecchi termini. Liquidati, o liquefatti.
In Italia, è vero, la politica non gode di particolare credito. È diffusa l’idea che la rappresentanza democratica sia nelle mani di una casta intoccabile e inamovibile. Eppure sono quasi due decenni, ormai, che la cosa che riesce con più frequenza di fare è, appunto, liquidare i partiti. In un duplice senso. Per un verso, infatti, il numero di partiti che dal ’92 a oggi ha chiuso bottega è sorprendentemente elevato; per l’altro verso, quelli che ci sono sembrano davvero voler sposare l’idea di modernità liquida brillantemente propagandata da Zygmunt Bauman. Sicché autentica svolta sarà se davvero, un giorno, si potrà dire che le elezioni del 2008 avranno rappresentato l’atto di nascita di nuovi partiti, capaci di durare un po’ più del tempo che separa una legislatura dall’altra.
La natura del movimento descritto è tale, tuttavia, da consentirci di non essere pessimisti: il primo soldato che si arresta non sa bene perché fermarsi; solo ex post si potrà scoprire che grazie a lui è stato possibile riordinare le file. E’ la logica del futuro anteriore, la logica che consente di riannodare il prima al poi – a condizione, beninteso, che qualcosa si voglia ancora riannodare, e non solamente sciogliere. In una tale logica, il futuro vale nella misura in cui è capace di consolidarsi come passato, e non semplicemente di lasciarsi dimenticare, e superare dall’ennesima novità, dall’ennesimo annuncio, dall’ennesimo colpo a sorpresa. Il tempo nuovo della politica italiana sarà perciò il tempo in cui finalmente non si avrà bisogno di condurre la battaglia politica in nome di un ulteriore tempo nuovo. E non dovendosi pensare un tempo nuovo, si sarà potuto pensare a misurarsi col tempo che c’è.
Intanto, però, tenendo prudentemente fede alla logica del futuro anteriore (altrimenti detta: senno di poi), si può evitare di formulare pronostici circa l’esito della competizione elettorale. Pronostici no, auspici però sì. Uno, in particolare, che interessa l’intero spazio della politica. Se infatti si vuole preservare un simile spazio; se non si è, per inconsapevole contrappasso, così pertinacemente marxisti da considerare massimamente desiderabile che la semplice “amministrazione delle cose” prenda il posto dello Stato, bisognerà che si provi a costruire esplicitamente il confronto democratico sulle questioni politicamente – politicamente, non eticamente – sensibili che lo attraversano, e grazie alle quali la società politica prende forma. Di questioni siffatte ce ne sono, e possono essere anche dirompenti. Solo che per lo più non attraversano i cieli azzurri e i prati verdi della politica italiana con la forza delle questioni discriminanti – e con i timbri, ben più ruvidi, della politica reale. La quale, peraltro, non potendo fare ancora la cortesia di liquefarsi completamente, si ripropone in ogni occasione anche oltre gli argini di neutralizzazione che si cerca affannosamente di costruire. Si tratti infatti del ruolo dell’Europa o del governo dell’economia, dell’immigrazione o dell’energia, delle politiche del lavoro o dei diritti civili, l’amministrazione delle cose non può bastare (anche perché poi, in concreto, significa che altri non democratici poteri sagacemente decidono altrove sulle suddette questioni).
Sta comunque il fatto, si sia indovinato o no a non ricandidare Ciriaco De Mita, e abbia lui fatto bene o no a cercare immediate rivalse, che la cosa più saggia su questa campagna elettorale ha finito col dirla lui. E cioè che in politica non conta tanto la capacità di formulare promesse, ma quella di saper raccontare il paese a se stesso. La credibilità di una proposta politica riposa infatti sulla continuità del racconto sul quale quella proposta si innesta; altrimenti, rimane un mero esercizio retorico, nuovo e accattivante come ogni moda, e come ogni moda passeggero.
In verità, che cosa si debba raccontare agli italiani, dopo il 14 aprile, nessuno lo sa veramente, anche perché nessuno ha ancora fatto veramente i conti con il problema di come raccontare gli anni di questa sgangherata Seconda Repubblica. Tutti aspettano naturalmente l’esito del voto. Sapere quanti italiani si saranno fermati, e dove, sarà sin troppo importante. Ma se il Partito democratico avrà i numeri per allestire nuovamente un esercito, bisogna sperare anche che abbia i concetti per riannodare finalmente il filo di un racconto condiviso.