Al solito, il problema è politico. Perché però il problema sia politico non è facile vederlo. Si parla, infatti, di tutt’altro: di scienza e cervello, percezioni e neuroni. Ma andiamo con ordine e cominciamo dalla notizia. Sull’autorevolissima rivista scientifica Nature è stato pubblicato lo scorso 5 marzo un articolo dal quale si apprende che l’équipe del neuroscienziato Jack Gallant, dell’Università della California, è riuscita a “scannerizzare il cervello”, a stabilire che cosa la persona sottoposta a esperimento vede, decodificando la sua attività cerebrale con una speciale risonanza magnetica. In medicina, simili ricerche possono essere utili, in prospettiva, per accertare gli effetti delle droghe sugli stati psichici, o per facilitare le diagnosi in casi come le demenze; ma anche, più in generale, per valutare le conseguenze di interventi al cervello. Naturalmente gli scenari che è possibile prefigurare sono vastissimi: lo stesso Gallant suggerisce per esempio che in futuro si potranno studiare i sogni in base ai processi cerebrali. Insieme agli scenari fioriscono però anche le domande (e le paure): ma allora che cosa significa pensare? Non vi è nulla nei nostri pensieri che non possa essere decifrato a partire dall’attività dei neuroni? O possiamo sperare che gli scienziati si fermino magari a livello della percezione e che le funzioni mentali superiori siano per qualche motivo illeggibili con gli scanner del professor Gallant? E che dire poi dell’autocoscienza e della ancor più preziosa libertà? O un giorno Gallant troverà tra i neuroni il punto in cui si materializza la libertà? E una volta che tutto sarà trovato “scritto” nelle circonvoluzioni cerebrali, vi saranno impedimenti di principio a scrivere le stesse cose su macchine? Le macchine potranno allora pensare? E noi, noi allora non siamo già macchine?
Quanto più queste domande ci inquietano, tanto più siamo tentati di ripiegare su una vecchia strategia cartesiana, aggiungendo un supplemento spirituale agli stati materiali del cervello: la strategia che Gilbert Ryle liquidò con l’espressione: “lo spettro nella macchina”. È chiaro, infatti, che quella strategia è perdente: in primo luogo, perché è puramente difensiva, ed è per questo che l’anima (perché di questo si tratta) nelle parole di Ryle si riduce a una presenza puramente spettrale; in secondo luogo, perché si fonda su una petizione di principio, sull’indiscutibile presupposto cioè che la nostra esperienza attesta che noi non siamo macchine, e tanto deve bastare; e infine, last but non least, perché Gallant non si fermerà.
Non resta che buttarla in politica. Per farlo, però, guardiamo più da vicino alle condizioni dell’esperimento di Gallant. È andata così: a due persone del suo gruppo di lavoro sono state sottoposte 1750 differenti immagini. Durante la visione, lo scanner ha lavorato sodo, accumulando dati su dati. Poi è stata proposta una serie di 120 nuove immagini, in precedenza non osservate, e la macchina scruta-cervelli ha indovinato cosa i due stessero guardando, a ogni casuale estrazione di un’immagine, con una percentuale di successo del 72 per cento in un caso, del 92 per cento nell’altro (tirando a caso, la macchina avrebbe azzeccato la risposta con una percentuale dello 0,8 per cento, il che dà la misura del risultato ottenuto). Bene, fatti i dovuti complimenti a Gallant, cosa c’entra ora la politica? Ma è chiaro: l’esperimento ha funzionato perché è stato condotto a partire da un certo numero di operazioni selettive, che hanno delimitato rigorosamente il campo d’indagine. Le due “cavie” (le due persone) hanno dovuto infatti sottoporsi a una precedente attività di scansione del loro cervello ed esercitarsi su un numero finito e ben delimitato di stimoli percettivi, ossia su un lotto predeterminato di immagini. Così come determinate in precedenza erano le immagini della nuova serie, che come carte di un mazzo da gioco lo scanner doveva già conoscere, per decidere poi quale di esse fosse stata proposta all’attenzione della cavia. Nel corso dell’intero esperimento, è da ritenere che non dovessero porsi problemi di interpretazione delle immagini in questione, e che le due persone accettassero docilmente di non mentire, non scherzare, non distrarsi, non pensare ad altro, non chiudere un occhio, non guardare in tralice, non ignorare e non sollevare dubbi circa il contenuto di senso delle immagini selezionate. A queste condizioni, l’esperimento è felicemente riuscito. Il passo successivo, ha detto poi lo scienziato, è stabilire cosa una persona veda, senza sottoporle un set predefinito di immagini. Senza costringerla, insomma, dentro un laboratorio. Ma tra il passo compiuto da Gallant e il passo successivo c’è un abisso. C’è tutta la distanza che separa (indico qui i due poli fra loro più distanti) la vita irreggimentata in un campo di concentramento dalla vita in un ambiente democratico, aperto, libero e liberamente reinventabile dalle relazioni fra gli uomini.
Si vede bene, adesso, quale sia la morale della favola: il pensiero non è una roba strettamente privata, che accada soltanto nel cervello degli uomini. Se può essere letto con il magico scanner di Gallant (o con una qualunque macchina più complicata) è perché è al contempo già “letto”, cioè già univocamente determinato, l’ambito in cui il pensiero è chiamato a esercitarsi. Se viceversa l’uomo non è ridotto a una cavia e può volgere la testa dove gli pare, e nessuno controlla il flusso di immagini che è chiamato a percepire, allora non c’è Gallant che tenga. Ma questo deve impegnarci particolarmente non nel proibire a Gallant di proseguire i suoi esperimenti, o nel fermare la ricerca e chiudere i laboratori, o nel riesumare una vecchia metafisica. Ma nel buttarla, come dicevo, in politica. Politica è infatti la cura dell’ambiente nel quale l’uomo vive. E democratico è l’ambiente più vario e aperto, in cui più ampia e indeterminata è la quantità di possibilità di costruzione dell’esistenza che sono offerte agli uomini. Democratico è precisamente l’ambiente in cui Gallant non può realizzare con successo i suoi esperimenti, perché in esso è possibile vedere l’immagine che abbiamo dinanzi agli occhi in infiniti modi diversi, senza che si sia chiamati da qualche autorità superiore a dare la risposta esatta.