L’innovazione tecnologica è diventata il nuovo mantra della politica italiana, ma limitarsi a invocarla non sarà di grande aiuto. Essere presenti nei settori a forte intensità di conoscenza scientifica è condizione irrinunciabile anche per continuare a essere competitivi sui nostri settori tradizionali, ma comporta l’introduzione di una serie di modifiche nella struttura e nel funzionamento dei mercati finanziari, nelle politiche della ricerca (universitaria e non solo), nella politica industriale tout court, nel mercato del lavoro e nelle politiche della formazione.
Dall’osservazione dei processi di sviluppo dell’economia della conoscenza negli altri paesi si ricava che progetti di imprenditorialità innovativa possono trovare spazio sia in grandi imprese che investono in Ricerca e Sviluppo, sia in piccole imprese basate su competenze personali di particolare eccellenza del team imprenditoriale. In particolare nei settori caratterizzati da forti discontinuità tecnologiche (biotecnologie e ict ad esempio) si nota la formazione di reti molto articolate che comprendono grandi e piccole imprese (queste ultime in gran parte di recente formazione), con le piccole imprese che ricoprono uno spazio importantissimo nelle fasi iniziali della sperimentazione di nuovi prodotti/processi e modelli di business. Nella maggior parte dei casi, inoltre, queste nuove imprese innovative nascono come spin-off da ricerca, avendo come fondatori persone che provengono dal mondo dell’università o che sono ex quadri tecnici della grande impresa. Non è infrequente che questo processo di spin-off sia incoraggiato e in qualche misura guidato dalla grande impresa.
Il settore delle biotecnologie può essere considerato emblematico di questo modello di funzionamento dell’economia della conoscenza. Sulle oltre 1500 imprese europee (di cui purtroppo soltanto 28 italiane), circa l’80 per cento ha meno di cinque anni di vita e il 90 per cento è nato come spin-off dal mondo accademico o start-up della ricerca industriale (dati Biotechnology Report 2005).
Questi dati ci indicano che i progetti di innovazione radicale nascono sempre meno nel chiuso dei laboratori di Ricerca e Sviluppo delle grandi multinazionali e sempre di più all’interno di entità organizzativamente molto piccole, sia che si tratti di nuove imprese autonome, sia che si tratti di spin-off più o meno direttamente collegati con la grande impresa.
Nelle attività economiche knowledge-based, laddove la creatività, il senso di autonomia e di indipendenza del capitale umano delle imprese è essenziale per realizzare prodotti innovativi e a forte contenuto di differenziazione, le piccole e medie imprese, specificamente quelle di nuova costituzione, possono rappresentare un terreno ideale affinché la creatività, l’autonomia, l’indipendenza si esprimano appieno. Emerge quindi l’importanza delle nuove imprese quali sedi naturali in cui sperimentare nuove idee che altrimenti verrebbero scartate o resterebbero inesplorate. Da questo punto di vista la nuova impresa che nasce dalla ricerca ha assunto la dimensione di fenomeno sociale oltre che economico in senso stretto. Rappresenta cioè l’asse portante di una “società imprenditoriale” nella quale, attraverso il lavoro in gruppi e reti interdipendenti, l’impulso allo sviluppo economico incontra l’esigenza di crescita e sviluppo personale.
Dato il quadro strutturale dell’economia della conoscenza, non meraviglia che la grande impresa sia disposta a spostarsi, con sue ramificazioni dirette, nei luoghi dove più alta è la concentrazione di sapere scientifico nel suo campo, meglio se accompagnato da un adeguato humus imprenditoriale capace di generare nuove imprese innovative. Se guardiamo, tanto per non citare sempre Boston o Oxford, al distretto ict di Bangalore in India, scopriamo che assieme alle centinaia di piccole imprese locali ci sono praticamente tutte le grandi multinazionali del settore.
Le cose ovviamente cambiano nel momento in cui un progetto di innovazione si afferma sul mercato e bisogna assicurare volumi e standard produttivi elevati. In questa fase la grande dimensione è ancora dominante (sia essa rappresentata dalla stessa start-up che è cresciuta nel tempo, o più verosimilmente dalla grande impresa che subentra rilevando la piccola innovativa).
Se tutto questo è vero, però, dovremmo trarne alcune conseguenze. In primo luogo, poiché il mercato collegato alle nuove imprese è tipicamente un mercato di interfaccia fra ricerca e attività produttive, la struttura di questo mercato dovrebbe facilitare il passaggio dalla ricerca all’impresa (e viceversa, anche in considerazione dell’elevata probabilità di uscita, ovvero di insuccesso della nuova impresa). Più correttamente si dovrebbe parlare, quindi, di un mercato dell’offerta di imprenditorialità innovativa da parte di soggetti con forti competenze tecnico-scientifiche. Il sistema italiano è particolarmente adatto allo sviluppo dell’imprenditorialità (i dati statistici lo dimostrano), ma dell’imprenditorialità dei padroncini, dei “self-made man” che sono cresciuti nei distretti e nei sistemi locali di produzione. Non riesce, invece, a produrre un’offerta adeguata di questo tipo di imprenditorialità knowledge-based. Di incoraggiante c’è il fermento che si può notare su questo fronte in diverse università e politecnici italiani, dove si comincia a capire che ricerca di base e ricerca applicata possono e debbono sostenersi vicendevolmente, e che in alcuni casi questa unitarietà è meglio assicurata se non vi sono soluzioni di continuità fra il laboratorio e il mercato.