Scorrendo la rassegna stampa delle ultime settimane potrebbe apparire che la recessione in arrivo sia da addebitare all’ostinazione con cui Jean Claude Trichet si rifiuta di abbassare il tasso di interesse dell’euro. Da parte di molti giornali e centri studi è in corso una gara: chi enfatizza l’arresto della crescita, chi l’esplodere del disagio sociale, chi infine avanza il sospetto che le banche europee siano minacciate da enormi perdite finanziarie ancora nascoste. Tutte ragioni che reclamerebbero, secondo la chiassosa campagna, un deciso allentamento del rigore finanziario. Ogni giorno molteplici colonne di giornale ci ricordano che l’inflazione crescente è dovuta al prezzo del petrolio e di altre merci di importazione, un dato esogeno sul quale non avrebbe effetto la feroce prudenza che Trichet applica ai tassi di interesse.
Si tratta di una nuova manifestazione di quella “strategia dell’allarmismo economico” – lanciata stavolta da Goldman Sachs – che Federico Caffè, invitando a diffidarne, sin dal 1972 descriveva in questi termini: “Presentazione artificiosamente esagerata di fatti reali… [che rientra] in una strategia oligopolistica rivolta a mettere in crisi un determinato assetto politico-sociale”.
Se si esaminano i numeri degli ultimi due anni, infatti, si vede come nulla giustifichi quell’allarme: il tasso di interesse di Eurolandia ha oscillato tra il 2006 e il 2007, in termini reali, tra l’1 e il 2 per cento, e in termini nominali tra il 2,5 e il 4,25. La crescita si è tenuta sempre un po’ sopra al 2 per cento.
L’inflazione, invece, che per anni è stata piatta intorno al 2 per cento, è salita al 3. E proprio perché tale incremento è dovuto in gran parte a prezzi internazionali, in Europa è salita meno che negli Usa e in Inghilterra, dove è arrivata al 4 per cento. Nel frattempo, infatti, l’euro si è molto apprezzato, fino a 1,45 per dollaro, consentendo agli europei di pagare meno il petrolio e le altre materie prime. Inflazione che dunque è dovuta all’enorme incremento di consumi dei giganti asiatici e degli Usa, che fa presagire per gli anni a venire sfide difficilissime, in cui le principali regioni del mondo non potranno più dare per scontata la capacità di approvvigionamento in materie prime fondamentali: petrolio, acqua, grano.
Oggi il tasso di interesse nominale dell’area euro è al 4 per cento, l’inflazione è superiore al 3, il tasso reale è poco meno dell’uno per cento, con un tasso di crescita in calo, ma ancora stimato per il 2008 all’1,7 per cento. Non sono numeri che giustificano così petulanti campagne di stampa della finanza internazionale, rilanciate peraltro con entusiasmo dal populismo di alcuni piccoli leader dell’Unione europea.
Certo, se avanzerà la recessione in America e rallenterà ancora la crescita globale, se il rallentamento economico attenuerà la corsa dell’inflazione, un intervento espansivo da parte della Bce darà un po’ di abbrivio alla crescita. Ma la Bce è senz’altro in grado di valutare in autonomia in quale momento operare tale intervento perché sia efficace.
Tra gli argomenti usati a sostegno della campagna contro la Bce, però, ce ne è uno che va preso sul serio, perché denota una certa dose di franchezza politica e di onestà intellettuale. Importanti economisti americani avvertono l’Europa che le conviene abbassare i tassi per consentire all’America di ripartire, in quanto lo sviluppo dell’Europa dipende ancora, essenzialmente, dalla capacità della “locomotiva” americana di assorbire importazioni. L’idea che sia avvenuto un “disallineamento”, per cui la crescita europea può sostituire al propulsore statunitense la propria domanda interna e lo sviluppo di nuovi mercati di sbocco a est sarebbe illusoria, anche perché la stessa crescita di quei paesi è legata all’andamento della domanda americana. Insomma: se si ferma l’America si ferma il mondo. C’è dell’enfasi pro domo sua in questo ragionamento, ma la descrizione dell’interdipendenza globale appare realistica. Tuttavia ci sono tre elementi nuovi che il ragionamento non coglie e che giustificano la condotta della Bce.
Il primo è che l’industria tedesca e, al suo seguito, le altre dell’Europa continentale hanno compiuto una dura ristrutturazione (che ha beneficiato dell’allargamento a est dell’Unione per attivare sinergie e delocalizzazioni) recuperando le quote di export che la sopravvalutazione dell’euro aveva eroso; per cui oggi, con l’euro a 1,45 sul dollaro, rispetto a cinque anni fa quando ne valeva 0,8, si vendono nel mondo sostanzialmente gli stessi volumi di manufatti europei, tecnologicamente migliorati e a prezzo contenuto.
Dopo la recessione del 2001, infatti, l’Europa non ha seguito gli Usa nell’innesco di una fase di crescita spinta dal debito e orientata dalla finanza (tassi a zero, tagli fiscali, finanza derivata e spese a debito), cosa che avrebbe messo a repentaglio la moneta unica e costretto l’Unione economica e monetaria a orientare al ribasso la sua vocazione esportatrice, indebolendo il suo modello sociale, ma ha preferito salvaguardare il patto di stabilità e l’euro anche a costo di attraversare un quadriennio di stagnazione, pur di conservare la propria intelaiatura industriale e la qualità del lavoro. Scegliere oggi di lasciar correre l’inflazione e di svalutare l’euro, abbassando i tassi nelle condizioni descritte, significherebbe indebolire la stabilità faticosamente conseguita, in cambio di una fiammata di crescita effimera.
Il secondo motivo per cui il monito a Trichet risulta vano è l’avvenuta maturazione dell’euro come valuta internazionale. Nel corso degli ultimi anni l’euro ha smesso di essere una moneta residuale, il cui valore e il cui tasso di interesse scaturiscono passivamente dalle scelte operate da altre – più importanti – regioni valutarie (dollaro) o commerciali (Cina, Russia, Opec). Nel corso della crisi finanziaria degli ultimi mesi, poi, è avvenuta la sua definitiva consacrazione come valuta di riserva, mezzo di pagamento internazionale, piattaforma per il consolidamento di un’area produttiva europea sempre più integrata, fonte primaria della liquidità internazionale.
Questa raggiunta autonomia e maturazione per di più sono stati fattore di accelerazione della crisi finanziaria americana: la possibilità di diversificare in euro le riserve valutarie ha reso meno sostenibile il debito estero americano, ha esercitato una pressione al rialzo sui tassi di interesse Usa, ha reso più grave la conseguente svalutazione del dollaro perché, per la prima volta, ad essa faceva da contrappunto il rafforzamento di una moneta di rango paragonabile.
Il terzo motivo è che mentre gli Stati uniti sono costretti a perseguire un aggiustamento in corsa che non ammette battute d’arresto della crescita, per via della fragilità del modello di sviluppo finanziario che hanno scelto e per la necessità politica di ribadire il primato globale (tanto più con due conflitti militari e una incerta campagna presidenziale in corso), l’Europa invece, che ha fatto della ricerca di uno sviluppo stabile nel lungo periodo la sua scelta strategica, non ha nulla da temere da un rallentamento congiunturale.
Da questo punto di vista il disallineamento è avvenuto, anche se il livello di interdipendenza tra Europa e Stati uniti non è diminuito. Gli anni della presidenza Clinton tuttavia hanno dimostrato che le capacità di recupero dell’economia americana, quando si stabilizzano bilancio pubblico e debito estero – e si fa ripartire il ciclo degli investimenti e delle innovazioni tecnologiche – sono impressionanti. E’ quello lo scenario ottimale che consentirebbe all’Europa di interagire nuovamente con gli Usa in modo cooperativo, integrando sempre più le due economie e le rispettive strutture finanziarie e tecnico-scientifiche, consolidando quindi il successo dell’euro in una cornice di sovranità multilaterale. Certo per l’America questo significherebbe un cambio di rotta deciso, ma sia i candidati democratici, sia il contendente repubblicano sembrano adatti a metterlo in atto; questo però può accadere soltanto se anche l’Europa, di fronte ad una svolta di questa portata, si mostra all’altezza. In quella nuova cornice, infatti, l’Ue avrebbe certamente la possibilità di concordare davvero le politiche della sicurezza internazionale, ma questo per le società europee vorrebbe dire disporsi ad accettare di spendere molto di più, e rischiare in prima persona, per contribuire a dare una buona soluzione ai conflitti in corso e a gestire le crisi del futuro.