“Yes, I can” è un pensiero che, prima o poi, attraversa la mente di ogni ciclista. Che si tratti di un’uscita domenicale con gli amici o degli ultimi chilometri di un campionato del mondo fa poca differenza. Funziona così: ci si sente bene, la gamba gira, i muscoli dei polpacci sembrano bielle infrangibili, il cuore batte forte ma non troppo e il respiro è profondo ma regolare. E allora si decide che sì, si può fare, e ci si alza sui pedali.
Tutti i ciclisti del mondo, che siano bolsi amatori o tiratissimi fenomeni, sanno tuttavia perfettamente che nove volte su dieci, novantanove volte su cento, l’esito dell’azione sarà fallimentare: la sensazione di potenza – di onnipotenza – si squaglia nel giro di poche pedalate; il gruppo degli avversari inesorabilmente rimonta; le gambe si fanno pesanti, il respiro corto, il cuore sembra il rullante di un batterista di quelli scarsi, che non sanno tenere bene il tempo. Alla fine, gli altri arrivano a velocità doppia e non solo si viene raggiunti, ma non si riesce più nemmeno a tenere le ruote. Il più delle volte dopo pochi altri chilometri di agonia, staccati da tutti, si è costretti al ritiro, se agonisti, o a sorbirsi fino a casa gli sfottò degli amici. L’indimenticabile Adriano De Zan usava spesso un’espressione icastica per definire questo fenomeno: “La fuga delle trentasei pedalate”. Trentasei pedalate: lo spazio che intercorre tra il sentirsi leoni e lo scoprirsi coglioni.
Il fatto è che in gruppo si va più forte. Contrariamente a quanto possono credere gli ingenui, perlopiù l’esito di una gara in bicicletta non ha a che fare con valori un po’ fumosi come il coraggio, la determinazione, la fede in se stessi, ma piuttosto con le leggi della fisica. Ferree. Ineluttabili. Il ciclismo ha una sua logica, dopotutto.
Viene da chiedersi, a questo punto, perché mai ciclisti di ogni ordine e grado si ostinino ancora ad andare in fuga. Per limitare l’analisi al mondo professionistico, ci può essere la volontà di compiacere lo sponsor: si esce dal gruppo per farsi riprendere dalle televisioni al seguito della corsa, sistemandosi prima per bene la maglia in modo che il logo risulti a favore di camera. Ci può essere il sacrificio a favore del capitano, per tenere alta la media: è il duro mestiere del gregario che lucra un sudato stipendio anzitutto facendo violenza ai propri sogni di gloria e persino alla propria dignità. Ci può essere, più banalmente, l’inesperienza, l’incapacità, la scarsa sagacia strategica.
Ci può essere, soprattutto, il miraggio di quella volta su dieci o su cento che la cosa – sorprendentemente – funziona. Il sogno della vittoria a braccia alzate e la retorica dell’ “uomo solo al comando della corsa” hanno fatto una serie infinita di vittime, ma hanno anche spinto a eccellere lo sparuto gruppo degli immortali del pedale. E uno, finché non ci prova, non sa a quale delle due categorie appartiene. È un po’ come comprare il biglietto della lotteria. Si sa che non funziona, ma se funziona…
Infine, c’è un caso tanto raro da risultare unico. È il caso Chiappucci.
Claudio Chiappucci, per chi non se lo ricordasse, è stato nella prima metà degli anni Novanta uno dei fari del ciclismo mondiale. Ai puristi del pedale è sempre stato piuttosto antipatico: classe scarsissima, nessun acume tattico, smargiassate e fanfaronate a ogni intervista, sgraziato e per nulla elegante in bicicletta. Però ebbe un seguito di tifo e di considerazione spropositato rispetto alle poche vittorie raccolte. In carriera vinse una Sanremo, una tappa al Giro, qualche bella tappa al Tour, una Classica di San Sebastian, poche altre corse di secondo piano, si piazzò tre volte sul podio sia al Giro che al Tour. Una carriera dignitosissima, ma non certo un palmarès da campione assoluto. Eppure piaceva. Entusiasmava. Perché andava in fuga. Senza logica. Senza alcun criterio.
Il suo capolavoro fu la tredicesima tappa del settantanovesimo Tour de France, una maratona di oltre duecentocinquanta chilometri su e giù per le Alpi tra Francia e Italia, da St Gervais al Sestriere, con arrivo in quota. Quel Tour era già stato blindato da Indurain alcuni giorni prima con la solita cronometro mostruosa nella quale il campione navarro rifilò più di tre minuti di distacco a chiunque e cinque e mezzo a Chiappucci. Un’eternità.
E allora il Nostro che fa? Arriva il tappone alpino, gli altri sono ancora lì che si scaldano i muscoli sui primi chilometri della prima salita (quel giorno erano in programma cinque colli), e lui parte come un motorino quando nessuno degli altri si era ancora tolto il giubbotto di goretex. Pronti, via. Con duecentocinquanta chilometri davanti.
Il bello è che Chiappucci, in materia, era pure recidivo. Due anni prima, sempre al Tour de France, baciato dal destino e dalla maglia gialla conquistata con un clamoroso colpo di fortuna (il suo gruppetto s’era avvantaggiato alla prima tappa e nessuno dei grandi, che si controllavano a vicenda, era andato a prenderli, lasciandoli arrivare con più di dieci minuti di vantaggio) riuscì a mandare tutto in vacca volendo fare il fenomeno: pur potendo controllare la corsa si fece prendere dall’orgasmo dell’impresa, attaccò durante un tappone, andò in crisi nera e fu disintegrato da LeMond. Insomma: quel giorno del Sestriere, due anni dopo, non poteva non sapere. Eppure partì a testa bassa, immemore e screanzato.
Il risultato fu una delle giornate più divertenti e memorabili nella storia recente del ciclismo. Quel colpo di testa fece saltare tutte le logiche e tutti i nervi. Indurain, che si riteneva inattaccabile, andò in affanno. Bugno, che sperava di arrivare col navarro ai piedi dell’ultima salita per poter almeno vincere la tappa prestigiosa, perse completamente la testa e si mise a inseguire come un forsennato, punto nell’orgoglio, senza rendersi conto di fare così il gioco di tutti i suoi avversari. Là davanti, Chiappucci procedeva indomito un colle dopo l’altro. Dietro, la paura, l’incapacità di capire che cosa stava succedendo e la disintegrazione di tutto il gruppo in seguito all’azione dei capitani fecero sì che gli inseguitori di Chiappucci non riuscissero a ridurre il distacco. Insomma: a metà tappa sembrò che l’azzardo potesse far saltare il banco. Grazie alla sorpresa e all’effettiva illogicità della mossa chiappucciana, per poco quel Tour non prese la via di Uboldo.
Già, per poco. Perché chilometro dopo chilometro la logica del ciclismo tornò a divenire ferrea. Gli inseguitori, piano piano, recuperarono gran parte dello svantaggio. Chiappucci, dinoccolato, oscillante, sfinito, riuscì a issarsi fino in cima al Sestriere. Arrivò da solo e vinse la tappa. Dietro di lui, esausto e in acido lattico, Indurain tagliò il traguardo con un minuto e quarantacinque secondi di ritardo, smoccolando in dialetto di Pamplona contro quel diavolo che lo aveva costretto a tirarsi il collo per sette ore d’inferno. Bugno andò in crampo cerebrale e fu terzo tra i grandi, a quasi tre minuti da Chiappucci. Il quale vinse la tappa, ma naturalmente perse il Tour. A Parigi, grazie alla resistenza opposta quel giorno verso Sestriere, Indurain lo precedette in classifica generale di quattro minuti e mezzo.
Indurain si avviò a dominare il ciclismo mondiale per un lustro, mentre El Diablo, così era soprannominato Chiappucci, quel giorno non fece coperchi, ma mise insieme una gran bella pentola.
I maligni e i tifosi di Bugno (e a maggior ragione i tifosi di Bugno d’indole maligna) pensano che, grazie a quella trovata, a quel coraggio senza criterio, a quella follia su due ruote, Chiappucci abbia raccolto un credito e una simpatia immeritati, giacché il ciclismo è sempre stato – prima e dopo quel giorno di luglio al Sestriere – una cosa seria e venerabile. E come una cosa seria e venerabile dovrebbe essere trattato da chi lo pratica. L’iconoclasta Chiappucci si fece un nome, guadagnò contratti, mise solide fondamenta per una serena vecchiaia. Non vinse più granché in bicicletta e si avviò a un lento declino agonistico. Per dire: una quindicina di anni dopo, in ricordo di quell’effimera gloria, fu invitato all’Isola dei Famosi: prese un sacco di soldi, rischiò di vincere, arrivò di nuovo secondo.