Cosa accomuna il primario che cerca la sponsorizzazione dell’assessore o del ministro di turno per la sua promozione, l’attrice disposta a molto se non a tutto per un posto in prima fila nel prossimo reality show, gli innumerevoli comuni mortali che ogni giorno, armati di monetina, cercano i numeri fortunati nel Gratta e Vinci, i tanti Consorzi pubblici e semipubblici che si aggiudicano l’esclusiva di un servizio pubblico locale? L’elemento che unisce nell’Italia di oggi vaste schiere di individui, intere categorie professionali e numerose organizzazioni d’impresa è la convinzione che un singolo evento possa cambiare il proprio destino. Raggiunta la meta, grazie ad artifizio o fortuna, si raccolgono frutti che non verranno più messi seriamente in discussione. Economia di relazione. Un modello di (dis)funzionamento dell’economia basato sulla riscossione di un beneficio economico qui e subito (e irreversibilmente) grazie a una posizione acquisita.
Intendiamoci, non è tanto un problema di legalità infranta. Molti casi rientrano pienamente nella legalità o sono magari border line, sul confine tra etica personale e regole opache e permeabili. Non è soltanto un problema di cultura del merito che viene calpestata, con conseguente demotivazione e deresponsabilizzazione del ruolo che ciascuno di noi occupa nella società. E’ certo tutto questo, ma è molto di più ed è molto più pericoloso perché impermeabile a inchieste giudiziarie e difficilmente scalfibile da leggi più severe e rigorose. E’ il trionfo della tattica sulla strategia, della rendita di posizione sul gusto della sfida per il cambiamento, dell’investimento in relazioni verticali con chi sta sopra nella scala sociale (e spesso al vertice c’è l’uomo politico) piuttosto che in relazioni orizzontali di collaborazione fra soggetti con pari dignità.
L’economia di relazione è sempre esistita, perché canalizza aspetti e pulsioni fondamentali della natura umana. Oggi però ci avvolge inesorabilmente e toglie l’ossigeno necessario allo sviluppo del paese.
La politica, e in particolare una politica che si dice riformista, non può non riflettere seriamente sulle cause profonde di questo malessere. Facendosi intermediaria in tanti e forse troppi campi, la politica ha contribuito a un poderoso processo di deresponsabilizzazione collettiva. Un ex (e verosimilmente prossimo venturo) presidente del Consiglio che si scomoda a raccomandare ballerine e figuranti rappresenta in modo plastico e forse insuperabile questa verità. Cosa dobbiamo ancora aspettare per porre al centro della prossima campagna elettorale la necessità di un’autoriforma della politica che ne delimiti e ne nobiliti gli spazi d’azione?