Alla vigilia delle scorse elezioni politiche, nel 2006, tutti i sondaggi, quasi tutti i commentatori e buona parte degli stessi esponenti della maggioranza pronosticavano una vittoria trionfale dell’opposizione. Eppure alle elezioni è andata come è andata. Silvio Berlusconi dovrebbe dunque pensarci bene, prima di rifiutare la proposta di un governo istituzionale per cambiare la legge elettorale. Ma dovrebbero riflettere bene anche i vertici del Partito democratico, nel caso in cui quella proposta cadesse, prima di annunciare solennemente che il Pd correrà da solo.
La prima ragione, più banale, sta nei numeri: il Partito democratico dovrebbe sottrarre voti al centrodestra e al tempo stesso fronteggiare la concorrenza della Cosa Rossa da un lato, dall’altro di Italia dei Valori, socialisti e radicali, in una lotta per la sopravvivenza che non potrebbe non essere violentissima, con tutto il carico di recriminazioni e accuse reciproche che è facile prevedere. E che ne sarebbe poi, sia detto per inciso, di tutte le amministrazioni locali – comuni, province e regioni – amministrate dal centrosinistra?
La seconda ragione per riflettere bene prima di compiere un simile passo è una conseguenza della prima: presentarsi alle elezioni all’insegna del parisiano “meglio perdere che perdersi” potrà magari soddisfare il desiderio di rivalsa dei propri sostenitori nei confronti dei vecchi alleati; potrà forse dare sollievo all’umana tentazione di scaricare su altri la responsabilità di una sconfitta; potrà perfino motivare maggiormente i propri militanti alla battaglia elettorale; ma anche ammesso e non concesso che simili reazioni non lascino segni profondi e duraturi, scavando trincee difficili da colmare in futuro su tutto il campo progressista, cosa succederà quando il ricordo delle polemiche interne e delle mille difficoltà dell’Unione cederà il posto alla ben più vivida immagine di un nuovo governo Berlusconi – e lo farà assai presto, nel fuoco della campagna elettorale – non appena quegli elettori e quei militanti rivedranno davanti a sé i volti dei futuri responsabili del governo di centrodestra? Si può stare certi che saranno proprio loro i primi a chiedere conto della scelta compiuta dai dirigenti del Pd. E avranno pienamente ragione, perché sta ai dirigenti guardare più lontano e prevedere entro ragionevoli limiti gli ostacoli che verranno lungo il cammino, non ai militanti.
L’alleanza di centrosinistra – ma anche lo stesso Partito democratico – si basava sull’idea che fosse possibile un compromesso tra centro e sinistra. Non richiudere in un’area antisistema forze consistenti come Rifondazione comunista, infatti, non è solo interesse della democrazia italiana – la costituzionalizzazione delle estreme – né solo un interesse vitale di quella sinistra riformista che voglia avere prima o poi qualche speranza di governare, e non solo in posizione subalterna rispetto alle forze moderate. Evitare un simile esito è prima di tutto nell’interesse del Partito democratico, che altrimenti rischia di smarrire la sua stessa ragion d’essere. E infatti, com’era facile prevedere, accantonata la “disomogenea” coalizione, ecco che la stessa linea di frattura già si ripresenta nel cuore del Pd, nella dialettica autodistruttiva tra le posizioni di Rosy Bindi (l’antica idea ulivista del Pd come partito-coalizione) e Francesco Rutelli (la non meno perniciosa idea del Pd come avanguardia di “volenterosi”, strutturalmente minoritaria). Il Partito democratico come baricentro del centrosinistra nasceva proprio in opposizione a entrambe queste pericolosissime suggestioni, rifiutando l’alternativa tra due forme uguali e contrarie di spappolamento, tra l’ingovernabilità del partito-tutto e l’irrilevanza del partito-quasi-nulla.
La linea del Pd come partito egemone del centrosinistra è la linea che ha determinato la stessa possibilità teorica di un governo di centrosinistra. Rinunciando a una funzione di sintesi tra le posizioni dei moderati e quelle di Rifondazione comunista nella coalizione, infatti, sarebbe più difficile – non più facile – tenere insieme, nel Pd, la politica industriale di cui parla Pierluigi Bersani e il liberismo di cui parlano i rutelliani. Rinunciando a tenere insieme radical-socialisti e cattolici nella coalizione, risulterebbe più difficile – non più facile – tenere insieme, nel Pd, i popolari di Beppe Fioroni e i laici di Gianni Cuperlo. Questo era non a caso l’argomento usato, a contrario, contro chi sosteneva che il Pd avrebbe destabilizzato la coalizione. Non per nulla il bersaglio privilegiato tanto dei cattolici ruiniani quanto dei liberisti à la Giavazzi non sono mai stati né i radical-socialisti né Rifondazione, ma Romano Prodi, come rappresentante di quella sintesi che in questi quindici anni abbiamo chiamato Ulivo. Sintesi che è stata la stessa condizione di possibilità di un governo di centrosinistra in generale e del governo Prodi in particolare, che proprio per questo oggi può presentare, nonostante tutto, un bilancio più che rispettabile. Ma nel momento in cui i partiti dell’Unione andranno al voto divisi, chi ci sarà a presentare quel bilancio? Se il segretario del principale partito della maggioranza dichiara che andrà da solo alle elezioni “quale che sia la legge elettorale”, cioè per principio, non finisce così per dare ragione ai suoi avversari, quando affermano che il primo a certificare il fallimento del centrosinistra è proprio lui?
Questa è la terza ragione che sconsiglia di andare da soli, perché nel momento in cui si afferma che il centrosinistra non è strutturalmente in grado di governare – per la legge elettorale, per il “bipolarismo coatto”, per il riscaldamento globale o per qualsiasi altro motivo – bisogna spiegare per quale ragione, allora, non si è votata con Clemente Mastella la sfiducia al governo Prodi, che di quella coalizione incapace di governare era espressione. Di qui la quarta ragione per evitare un simile passo: la pericolosa illusione di poter condurre una campagna elettorale da pseudo-opposizione. E’ una tentazione fortissima, che già affiora in molti, ma destinata a squagliarsi al primo contraddittorio, dove gli avversari non avranno difficoltà a smascherarla. E’ la tentazione della strada apparentemente più facile, la scorciatoia che consiste nel farsi avanti come il nuovo, senza bilanci da presentare, errori di cui rispondere e risultati da difendere. Ma con un simile atteggiamento non si perderebbero solo le elezioni, si perderebbe pure la faccia. Apparirebbe come un tentativo di prendere in giro gli elettori, che gli elettori difficilmente perdonerebbero.
A queste ragioni molti oppongono però un dato dell’esperienza, quasi un trauma psicologico: una più che comprensibile idiosincrasia per la sola idea di uno di quei vertici di coalizione da cinquanta partecipanti che non hanno mai risparmiato polemiche e difficoltà al governo Prodi. Può darsi che la minaccia di presentarsi da soli serva a raggiungere un nuovo accordo con gli alleati, meno vago e più stringente, anche in termini di seggi. Se così fosse, sarebbe cosa buona e giusta. Ma se Walter Veltroni fosse davvero convinto della necessità di presentare il Pd con il suo simbolo e senza alleati, ebbene, forse dovrebbe sapere che esiste una legge elettorale fatta apposta per questo, tale cioè da non rendere una simile scelta un suicidio, come sarebbe con la legge attuale. E’ in uso in Germania da molto tempo e a quanto pare funziona egregiamente.