La gravità della crisi politica che stiamo attraversando impone di riflettere sulle ragioni che hanno reso fragile il riformismo italiano nell’ultimo quindicennio. Una debolezza che trova la sua conferma più emblematica nella speculare forza e persistenza del berlusconismo. Molti commenti alla caduta del secondo governo Prodi hanno giustamente attribuito un carattere periodizzante alla vicenda consumatasi in Senato, parlando della “chiusura di un ciclo” della storia del nostro paese. Un ciclo caratterizzato da una coalizione di centrosinistra troppo ampia (dai moderati alla sinistra radicale) e per questo strutturalmente incapace di fare le riforme e di costruire nel paese il consenso intorno a una proposta politica chiara. E’ una lettura della vicenda politica recente che coglie, naturalmente, un punto di verità. Ma che a me sembra insufficiente.
Il bipolarismo ideologico e frammentato di questi anni infatti non è caduto dal cielo. E il suo cattivo funzionamento non può essere addebitato solo ai piccoli partiti o alla legge elettorale (una legge che peraltro avrebbe dato, con ogni probabilità, una netta maggioranza in Senato all’Unione, se si fosse presentato anche lì il simbolo dell’Ulivo).
Il bipolarismo che giovedì è andato in scena al Senato offrendo agli italiani quello spettacolo così poco edificante è uno dei principali prodotti della cultura politica che – dopo una lunga incubazione – si è affermata compiutamente in Italia all’inizio degli anni Novanta: la cultura politica della Seconda Repubblica. Non a caso, a dispetto della maggiore stabilità dei governi, quel bipolarismo presenta spesso problemi non minori anche nelle amministrazioni locali, dove l’elezione diretta del sindaco o del presidente avrebbe dovuto aprire la strada alla “democrazia che decide”, dispiegando tutte le immaginate virtù dello “spirito del maggioritario”.
La cultura che ha generato questo bipolarismo ideologico e frammentato, fondato sui leader invece che su partiti veri, è stata ed è tuttora egemone tra le classi dirigenti (non solo politiche) del paese. E l’abbiamo alimentata anche noi, fin da quando il Pds si schierò con i referendum di Mario Segni e pensò che tangentopoli potesse giovargli. Lo abbiamo fatto, credo, per due ragioni. In parte perché subalterni a una cultura “nuovista” che demonizzava la Prima Repubblica e i suoi protagonisti. In parte, paradossalmente, per esigenze di conservazione. La “protesi” maggioritaria e il “bipolarismo coatto” hanno infatti consentito alle fragili formazioni della Seconda Repubblica di amministrare ciascuna la propria rendita di posizione, piuttosto che andare fino in fondo nella faticosa edificazione di partiti di tipo europeo. Piuttosto cioè che percorrere la dura strada di una autentica elaborazione culturale e programmatica, dello studio approfondito dei problemi, della rigorosa applicazione di regole democratiche interne, della selezione dei quadri migliori, dell’apertura alla partecipazione e ai corpi intermedi e della presenza – in forme nuove – nella società in tutte le sue articolazioni.
Il superamento – ormai inevitabile – di quel bipolarismo richiede quindi a tutti i suoi attori, e in primo luogo a noi, uno sforzo di innovazione. Una vera e propria svolta culturale oltre che politica.
Da questo punto di vista, il Partito democratico è a un bivio. Innanzitutto il bivio tra una corsa rovinosa verso le elezioni e il tentativo di costruire un governo per le riforme capace di cambiare la legge elettorale. Ma è lo stesso bivio che si presenta sul terreno della definizione del profilo politico e culturale, dello stesso incarnato simbolico del Pd. Di un soggetto politico cioè che ancora non ha deciso se diventare un partito vero, o se essere l’ennesima struttura politica provvisoria e incentrata sul leader di una transizione infinita. Che non ha ancora deciso se ambisce ad archiviare la Seconda Repubblica o a perpetuarla. D’altronde, che dietro i problemi politici contingenti ci siano questioni di fondo ce lo dice lo stesso andamento della crisi. Una crisi che è apparsa fortemente condizionata da questioni tutt’altro che congiunturali: la legge elettorale e il profilo della nostra democrazia, i rapporti tra politica e giustizia, quelli tra Stato e Chiesa e tra credenti e non credenti, con sullo sfondo il difficile nesso tra risanamento e sviluppo.
Questo bivio impone dunque di sciogliere dei nodi culturali, anche per affrontare le difficili sfide politiche di questa fase e dare sostanza e credibilità alla giusta affermazione, che in qualsiasi altro paese europeo apparirebbe ovvia e che in Italia suona invece innovatrice, che il Pd intende presentarsi agli elettori con il proprio simbolo e il proprio programma.
Quella che va superata è una lettura distorta che considera la crisi italiana essenzialmente come conseguenza dell’invadenza dello Stato (quanta sciocca ironia sull’“Iri dei panettoni” abbiamo avuto negli anni 90 e dobbiamo gettarci alle spalle), del centralismo e della partitocrazia della Prima Repubblica. Il tema meriterebbe ovviamente una trattazione più ampia, che dia conto adeguatamente delle ragioni dell’esaurimento e della crisi di quella stagione così feconda della nostra storia, e che valorizzi le importanti innovazioni della cultura politica della sinistra realizzate in questi anni in direzione di un moderno riformismo europeo. Qui vorrei però limitarmi a indicare alcuni nodi che mi sembrano tra i più significativi e controversi, sui quali una fondazione come Italianieuropei può offrire un contributo importante a un lavoro che non potrà che essere di lunga lena.
Il primo punto riguarda l’analisi del processo di globalizzazione e della sua evoluzione. La crisi delle grandi banche americane ci dice oggi, con un’evidenza senza precedenti, che la finanziarizzazione delle economie occidentali innescata dall’enorme indebitamento degli Stati Uniti ha prodotto squilibri e contraddizioni ormai insostenibili. Il fondamento culturale di quel modello economico è stata una lettura ideologica dell’89 e della rivoluzione informatica. Una lettura che ha interpretato quei fenomeni con gli slogan dell’“unipolarismo” statunitense, della “fine della storia”, e con le fantasticherie di un’“economia della conoscenza e del tempo libero” connessa a una presunta “fine del lavoro”. E che in questo modo ha occultato la realtà di un mondo sempre più multipolare e di un’economia globale caratterizzata da uno sviluppo industriale su scala planetaria senza precedenti nella storia. Non si tratta di questioni astratte, ma dei concreti condizionamenti politici, economici e culturali che hanno portato, ad esempio, a cedere sul mercato finanziario, senza un disegno industriale, nell’indifferenza generale, autentici gioielli del lavoro italiano (da Fiat Avio a Fiat Ferroviaria, da Nuovo Pignone a Pirelli Cavi). O ancora, si tratta delle ragioni culturali profonde che ci hanno indotto, alla vigilia del boom della domanda di acciaio mondiale innescata dall’urbanizzazione in Asia, a svendere le storiche acciaierie Terni alla Thyssen e di liquidare Bagnoli facendone il cimitero della retorica della società postmoderna.
Come ieri ci ha giustamente ricordato Innocenzo Cipolletta sul Sole 24 ore, la scelta della Bce per una politica monetaria prudente, nonostante le pressioni da oltreoceano per abbassare i tassi, è la conseguenza di un’opzione diversa che si sta affermando in Europa. L’opzione per un modello di sviluppo basato non sulla finanza ma sull’industria, sulla difesa del modello sociale europeo, su un indirizzo di politica economica che richiede al tempo stesso apertura governata dei mercati e rinnovate politiche pubbliche. Questo significa porre al centro della cultura politica del Pd l’orizzonte della costruzione europea, l’etica del lavoro e le politiche dello sviluppo, rimettendo invece al giusto posto il parossismo finanziario, l’economia dell’intrattenimento e del tempo libero, che ci hanno assorbito eccessivamente e in modo fuorviante. Questo vuol dire anche decidere che quei lavoratori e quegli imprenditori che fanno vivere in modo sorprendentemente dinamico il tessuto industriale dell’Italia sono un riferimento irrinunciabile per il Partito democratico, ben prima che i pensionati di anzianità, i proprietari di appartamenti e di azioni in cerca di svago, i giornalisti che vanno in tv.
Un secondo tema con cui occorre misurarsi in modo nuovo è quello della sussidiarietà, che è al centro della costruzione europea. Nella realtà dell’Europa di oggi l’economia e la società sono governate da istituzioni politiche, e non sono il frutto della spontanea interazione dei singoli individui sul mercato. A dispetto di tanto parlare di “società liquida” e di “società degli individui”, la dimensione associativa in tutte le sue molteplici forme (economiche, sociali, religiose, familiari) svolge un ruolo centrale. Un partito politico come il Pd deve fare i conti con questa realtà. E deve farlo anche per declinare in modo realmente innovativo la giusta idea di un partito dei cittadini e non delle tessere. La costruzione di una vera e propria osmosi tra il partito degli iscritti e una comunità più larga composta da fondazioni, riviste, associazioni, cooperative, sindacati è infatti l’unico modo per animare una partecipazione politica consapevole e per rendere condivisi i processi di riforma. Ciò impone però una riflessione seria su diverse questioni cruciali: i caratteri di un nuovo collateralismo, le regole di un pluralismo interno fondato su grandi opzioni politico-culturali invece che occulto e personalistico (non abbiamo sciolto il Pci e poi i Ds per tornare al centralismo democratico); la effettiva efficacia di meccanismi di consultazione come le primarie che non possono limitarsi a ratificare in modo plebiscitario decisioni prese altrove, ma devono offrire ai cittadini una effettiva capacità di scelta a partire dalla elezione degli organismi dirigenti e dalla selezione dei candidati a tutte le cariche istituzionali. E’ questo, d’altronde, l’unico modo per rendere vitale e operante nel Pd l’esperienza dell’Ulivo e la concreta capacità che essa ha mostrato di far incontrare la tradizioni del partito politico come “democrazia che si organizza” e quella, di matrice cattolica, del partito come strumento di un dialogo con i corpi intermedi della società fondato sulla laicità della politica.
Questo ci porta al terzo nodo politico-culturale che vorrei richiamare, che è anche il più direttamente legato alla situazione politica attuale: quello delle regole della democrazia. Sarebbe ora che l’opzione per un sistema elettorale di tipo tedesco non venisse vissuta come una dolorosa necessità imposta dagli attuali equilibri in parlamento, ma come la consapevole e non contingente scelta per un modello che in virtù delle sue caratteristiche è il più funzionale all’edificazione di una democrazia dei partiti di tipo europeo (oltre ad essere coerente con l’impianto parlamentaristico della nostra costituzione giustamente richiamato dal Capo dello Stato nel suo discorso alle Camere). Le resistenze che finora il Pd ha manifestato su questo terreno appaiono troppo condizionate dalla tradizionale lettura politologica secondo cui il problema principale dell’Italia sarebbe la permanenza del “vecchio” (cioè il sistema parlamentare e i partiti), da sostituire con un “nuovo” rappresentato dall’investitura diretta della leadership personale. Si tratta di uno schema inadeguato, che non consente di capire come in questi anni la crescente frammentazione del sistema dei partiti sia stata invece strettamente legata alla personalizzazione della politica e all’elezione diretta. Uno schema che impedisce di constatare come, di fronte alla frantumazione della politica e della società, la stessa elezione diretta si rivela spesso un meccanismo del tutto impotente. Il problema non è insomma solo quello, ovviamente importante, di una “democrazia che decide”; ma anche quello di una democrazia che sappia cosa decidere e che trovi la sua autorevolezza nella capacità di costruire il consenso nella società intorno a un’agenda non dettata dai media, dall’emergenza o dai sondaggi. Perché tutto ciò avvenga, in un paese fragile e lacerato come l’Italia, è necessaria innanzitutto la paziente ricostruzione di un tessuto connettivo politico, culturale e morale. E occorrono quindi dei partiti veri, capaci di darsi questa missione. Vedremo nei prossimi giorni se riusciremo a dar vita a un governo che imposti in questo modo il problema della legge elettorale. Quello che è certo è che la costruzione di un partito vero richiederà in ogni caso uno straordinario sforzo di elaborazione culturale e di organizzazione della discussione.
Per animare questo lavoro e renderlo partecipato, una fondazione come Italianieuropei non potrà che rappresentare un punto di riferimento fondamentale. E potrà farlo soprattutto perché, in questi dieci anni, è stata tra i pochissimi centri di elaborazione che hanno saputo coniugare autorevolezza, apertura e autonomia culturale. Divenendo un punto di riferimento anche per quanti hanno cercato, spesso in solitudine, di elaborare e di proporre un’analisi della crisi italiana e dei compiti di un nuovo riformismo meno ideologica e meno subalterna, e quindi meno provinciale, di quella che ha segnato la cultura politica della Seconda Repubblica.
- Intervento pronunciato sabato 26 gennaio 2008, all’auditorium del Massimo a Roma, per il decennale della fondazione Italianieuropei.