Il contorto processo politico che ha preceduto la presentazione della bozza Bianco in Senato, a ben vedere, costituisce una delle manifestazioni più emblematiche dello scarto tra le potenzialità del Partito democratico e i persistenti limiti culturali del riformismo italiano, eredità di quell’infausta stagione chiamata Seconda Repubblica. In un’affannosa girandola di ambiziosi “modelli ibridi” presto accantonati, “condizioni irrinunciabili” puntualmente lasciate cadere, improbabili marchingegni elettorali fatalmente messi da parte – da ultimo il cosiddetto “premietto” – il Pd è parso infatti subire, più che volere, quell’approdo verso un sistema di tipo tedesco che costituisce invece il principale risultato della sua nascita e la migliore condizione della sua affermazione come moderna forza riformista.
La trasformazione dell’Ulivo in un partito politico – e il peculiare rapporto tra tradizione e innovazione che tale processo incorpora – consente infatti di ricostruire in Italia una democrazia dei partiti di tipo europeo. E cioè un sistema politico moderno che archivi il perverso intreccio caratteristico del bipolarismo ideologico e frammentato di questi anni, quello tra leaderismo da un lato e balcanizzazione politica e sociale dall’altro. Il sistema tedesco definisce l’ambiente ottimale per realizzare questo obiettivo, e proprio in virtù di quelli che i detrattori considerano i suoi principali difetti: l’insufficiente “disproporzionalità” e l’assenza di vincoli per le alleanze.
Per i fragili partiti della Seconda Repubblica, frettolosamente costruiti con i detriti del vecchio sistema politico, la stampella maggioritaria è stata lo strumento per aggirare il rinnovamento politico e culturale che l’obsolescenza delle rispettive culture politiche rendeva dolorosamente necessario. Il “bipolarismo coatto” di cui oggi tutti si lamentano nasce così. Dinanzi alla periodica chiamata alle armi per sconfiggere l’avversario in un grande schieramento in cui tutti sono indispensabili, la seria elaborazione culturale e programmatica, lo studio approfondito dei problemi, la rigorosa applicazione di regole democratiche interne, la selezione dei quadri migliori – e non semplicemente dei più fedeli – divengono tutti lussi ai quali si è “costretti” a rinunciare. La lotta politica diventa così una guerra interna per il controllo delle plance di comando da dove amministrare una comoda rendita di posizione, in attesa del proprio turno per andare al governo, dopo l’inevitabile fallimento degli avversari.
In questo quadro, per larga parte della sinistra, la “religione del maggioritario” e il mito dell’elezione diretta non hanno rappresentato solo uno dei sintomi di una più generalizzata subalternità culturale al pensiero neoconservatore, ma si sono rivelati anche, in modo solo apparentemente paradossale, straordinari strumenti per l’autoconservazione del ceto politico post-comunista. Non deve quindi stupire che molti degli esponenti di un partito che è passato dal 16 per cento del 1992 al 17 per cento del 2006 siano terrorizzati all’idea che i cittadini possano tornare a scegliere liberamente per chi votare senza subire il ricatto della “minaccia di destra” e abbiano l’ossessione della “disproporzionalità” (cioè di come avere il potere senza avere i voti), trasferendo tale atteggiamento nel nuovo partito. Ma il Partito democratico è nato proprio per superare tutto questo, e tra i suoi numerosi vantaggi (un largo consenso parlamentare, la coerenza con l’impianto della nostra Costituzione) il sistema tedesco presenta anche quello di costringerlo a diventare un partito vero.
Perché ciò avvenga è però necessario archiviare definitivamente una cultura politica ormai obsoleta. La vicenda dei rifiuti in Campania rende evidente che di fronte alla frantumazione della politica e della società l’elezione diretta e i poteri speciali possono ben poco, e sono anzi spesso in antitesi con la faticosa e lungimirante costruzione nella società del consenso necessario ai processi di riforma; così come lo sviluppo di un’Europa della sussidiarietà dovrebbe ormai indurre anche i più accaniti nostalgici della stagione dei sindaci a interrogarsi sul tramonto del mito giacobino della ricerca di una inesistente stanza dei bottoni. Eppure, nonostante sia sempre più evidente che l’Italia ha bisogno innanzi tutto della paziente ricostruzione di un tessuto politico, culturale e morale, in mancanza del quale nessuna leadership personale, per quanto brillante, saprà governare veramente, la tentazione presidenzialista e lo “spirito del maggioritario” continuano ad aleggiare nel discorso pubblico del Pd. Ricordandoci quanto lunga è ancora la strada da percorrere, per rendere il Partito democratico un partito veramente nuovo.